Uno degli eventi ciclici più importanti dell’arte contemporanea in Germania, la Biennale di Berlino, quest’anno presenta i lavori di 46 artisti, esattamente né più né meno di ciò che un visitatore preparato riesce ad assimilare nell’arco di 1 o 2 giorni. L’evento si è aperto il 9 giugno e terminerà il 9 settembre. La curatrice Gabi Ngcobo, insieme al suo team – Nomaduma Rosa Masilela, Serubiri Moses, Thiago de Paula e Yvette Mutumba – spera di aver creato un’esposizione che “rilasciandosi lentamente abbia un impatto nel tempo”1; una frase che sembra adattarsi perfettamente a ciò che affrontiamo nelle sedi di Akademie der Künste, KW Institute for Contemporary Art, Volksbühne Pavilion , ZK/U – Center for Art and Urbanistics e HAU Hebbel am Ufer2. In questo evento, l’atmosfera assomiglia di più alle concettuali vacanze sotto le palme che ai compiti ardui da fare dopo scuola (il riferimento sottile è alla 32° Bienal de São Paulo, co-curato da Gabi Ngcobo, dove l’educazione era il numero uno degli obiettivi)2.
Il titolo della decima Biennale: We don’t need another hero fa riferimento alla canzone di Tina Turner scritta negli anni Ottanta. Nello stesso periodo, Bonnie Tyler cantava I Need a Hero. Mentre la prima grande rappresentante della cultura pop, credeva di non aver bisogno di una guida adulta che la aiutasse a tornare a casa (“We don’t need to know the way home, All we want is life beyond the Thunderdome”), la seconda cercava l’uomo forte che la supportasse (“He’s gotta be strong and he’s gotta be fast, And he’s gotta be fresh from the fight”). In entrambe le canzoni, gli atteggiamenti nei confronti della realtà socio-politica, psicologicamente proiettati verso i genitori e gli uomini, erano forti, emozionanti e ambivalenti, quarant’anni fa come adesso.

Già l’anno scorso, alla nona edizione della Biennale berlinese, DIS Collective sottolineava la presenza di “contraddizioni inconsolabili che caratterizzano il nostro presente” e di “incongruenze che affliggono le scelte che facciamo nella nostra vita quotidiana”3. Dopo due anni, il tema rimane ancora pulsante. Stimolante il logo della Biennale 2018, realizzato da Maziar Pahlevan, rappresenta lo stesso atteggiamento: “L’idea di voler trovare una posizione può essere davvero accecante, quindi, pensare a quest’idea di un “Dazzling Camouflage” non è un modo per essere poco chiari […] ma un modo per poter arrivare all’inaspettato”4– questo l’obiettivo dichiarato dalla curatrice in occasione di Art Basel 2017.
Gli artisti provenineti dall’Africa sono apparsi decisamente più numerosi rispetto al passato. Dall’inizio degli anni 2000, Gabi Ngcobo è stata impegnata in progetti estetici, curatoriali ed educativo- collaborativi in Sud Africa e in ambito globale. Ciò non significa che bisogna far sicuro riferimento al “post-colonialismo”, come hanno sostenuto, fin da subito, alcuni media. Anzi, sarebbe meglio cercare di evitare troppe semplificazioni anche se si impongono a un primo sguardo.
La Biennale 2018 appare piena dei vari manifesti, delle minoranze, delle forti voci femminili. Heba Y. Amin, nella sua Operation Sunken Sea (The Anti-Control Room) (2018), in un modo molto ufficiale, spiega il bisogno urgente di sbarazzarsi degli oceani che inutilmente separano i nostri continenti. Al KW troviamo il rilassante Mastur Bar (2015-18) di Fabiana Faleiros, tentativo mirato di liberarsi e sentirsi come a casa, decorato con la scritta “Ich liebe meine vagina” esposta al fianco del bar.
Tra gli eventi più spaziosi e colorati, due installazioni: la prima è una serie di video anti-conformisti dell’artista Tony Cokes nascosti (proprio come fanno i guerriglieri preparandosi a combattare per un domani migliore) nella cantina di Zentrum Fur Kunst Und Urbanistik; la seconda è l’ampia lettura narrativa di Untitled (Of Occult Instability [Feelings]) di Dineo Seshee Bopape al KW Institute For Contemporary Art. Lo spazio causa un’esperienza emozionante piena di sofferenza e di immersione in sé stessi, creata dai vari operatori estetici invitati dall’artista a condividere parte dell’installazione. L’atmosfera assomiglia alla personalità di una delle protagoniste registrate e presentate nell’archivio video – la grande Nina Simone – la cui voce è udibile da ogni angolo della sala. Accanto al video, troviamo l’opera di Robert Rhee che ricorda la scultura della venere di Willendorf, però intrappolata e rotante. I lavori sono esposti tra le innumerevoli colonne “guaste” dell’edificio. Tutto ciò, vestito in arancione intenso, seduce, ispira compassione e non ci lascia andare via.

La Berlin Biennale è nata nel marzo del 1996 come piccolo movimento creativo degli artisti di Auguststrasse, in zona Berlin Mitte. È stato creato da Klaus Biesenbach e da un gruppo di collezionisti. “Dovevamo creare qualcosa di nuovo”, disse il direttore fondatore5. Una continua ricerca delle novità e il forte riferimento a ciò che succede intorno, sono i punti fermi dell’ogni edizione. “L’idea non è di avere un tema, ma di avere una posizione” – spiega Ngcobo6.
Dobrosława Nowak
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1) SABC Digital News, Video Youtube (link al video), 2018.
2) Artycok.tv, Video Youtube (link al video), 2018.
3) Hili Perlson, The 9th Berlin Biennale Revels in Doomsday Scenarios and Secret Spaces, Artnet, 03 giugno 2016.
4) Art Basel, Video Youtube (link al video), 2017.
5) Klaus Biesenbach, “We Had to Create Something New”: Klaus Biesenbach on Inventing the Berlin Biennale, Art News, 06 luglio 2018.
6) Art Basel, Video Youtube (link al video), 2017.
WE DON’T NEED ANOTHER HERO
10th Berlin Biennale for Contemporary Art
a cura di Gabi Ngcobo
9 giugno – 9 settembre 2018
Immagine di copertina: Sheshee Bopape – Installation view (detail), 10. Berlin Biennale, KW Institute for Contemporary Art, Berlin, Untitled (Of Occult Instability) [Feelings], 2016–18, bricks, light, sounds, videos, water, framed napkin, including works by: Jabu Arnell, Discoball X, 2018, Lachell Workman, Justice for_, 2014, Robert Rhee, EEEERRRRGGHHHH und and ZOUNDS (both from the series Occupations of Uninhabited Space, 2013 – ongoing), 2015 – Courtesy Dineo Seshee Bopape; Jabu Arnell; Lachell Workman; Mo Laudi; Robert Rhee; Sfeir-Semler Gallery, Hamburg/Beirut, ph Timo Ohler