Una storia pittorica per la Tube Culture Hall di Milano

La Tube Culture Hall di Milano è un luogo particolare che si inserisce nel mezzo della vicenda generale della storia, e nel suo specifico, della storia della pittura. Pittura di contenuto, pittura buona, di gusto e di gesto, oltre che raffinata e sincera. Pittura veloce, oppure posata per la semplice visione del molto che è insito nella dimensione delle “immagini”, e poco importa che siano astratte o visivamente riconoscibili. Pittura che distoglie lo sguardo, anche solo per un attimo, dall’eccesso di ragionamento, dal concetto per il concetto che oggi spesso sovrasta l’esperienza in nome di un’interpretazione che altro non è, come diceva Susan Sontag, «la vendetta dell’intelletto sul mondo». La presunzione di poter «trasformare il mondo in questo mondo. (“Questo mondo!” Come se ce ne fossero altri)».

Aperta a Milano nel 2021 in Piazza XXV Aprile, la galleria mostra al suo interno l’inusuale corredo delle mura spagnole della città antica. Costruita nel costruito, e modellata là dove le rimanenze del passato ancora risultano informi, lontane e inappropriate al tempo presente. Da qui si parte, o meglio, si riparte la spelonca tragica del dipingere. Il suo affaire giocoso e drammatico che lacera la soglia della storia nel divenire di forme che sono tautologie di un metodo. Una storia tragica, abbiamo detto, pertugio concreto nella materia dipinta, che forse rivela la sua genesi nella settima esposizione proposta dallo spazio gestito da Federica Ferrari e Camilla Previ. È così infatti che Danny Avidan (1989, Kingstone, Jamaica), aveva presentato tra il 14 Settembre e il 29 Ottobre 2022 The Tragedy of Acis and Galatea, annientando, ma per creare, togliendo per mettere, componendo forme e grafie di colore e materia che guardano nel profondo. Verso l’immagine che si fa pittorica e, come controcanto, seguendo la ratio pittorica che diviene visiva. Tutto in pittura avviene sulla tela. “Una tela grigia è una tela grigia”, direbbe Gerhard Richter, come possibilità di un ragionamento che non è mai fine a se stesso, e per nulla al mondo si crogiola nel suo autocompiacimento. È una mescolanza, invece, pari alle lacrime della ninfa Galatea che miste al sangue del morente Aci, avevano, secondo il mito, trasformato quest’ultimo in un fiume.

«Le opere di Danny Avidan», ha scritto Domenico De Chirico, «sono strati sedimentati e lacerati in cui ogni elemento guizza tra tutti gli altri per decantarne la trasformazione e la nascita, la distruzione e il fatuo». È qui la peculiarità di chi dipinge, o di chi direttamente si getta nel turbinio plastico della materia. Nessuna evocazione e nessun ragionamento, poiché l’istinto di un segno che prende forma è esso stesso ragione, è esso stesso misura essenziale del senso rappresentato, aperto e di nuovo portato alla luce. Sulla scia di Castor Seibel, dipingere è una pratica “insolitamente fisica”, che segue il divenire di un gesto, l’amore per il gesto. Amore, una parola «che il mondo dell’arte pronuncia con rare eccezioni», affermava Corinne Rondeau. Un amore devastante e terribile, il quale, tuttavia, ritrova le formule con cui considerare l’immaginazione, finanche onirica, della realtà in quanto tale. La sua quotidianità. 



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La regina annoiata si affaccia sui suoi campi (Bored queen overlooks her fields, 16 Aprile – 28 Maggio 2021) titolava la prima esposizione tutta dedicata alle tele della pittrice svizzera Sophie Ullrich (1990, Ginevra). La mostra ruotava attorno all’idea dell’umore, dell’ironia, dell’erotismo e della noia. Quattro vocaboli a partire dai quali già si potrebbe tracciare una linea storica dell’arte. L’arte che guarda l’arte, che prende spunto dal gesto carnale, giocoso e sensuale instaurato nella complicità triste e frivola di Gabrielle d’Estrées – amante di Enrico IV – e di sua sorella. Quest’ultima, nel quadro conservato al Louvre e attribuito alla Scuola di Fontainebleu, pizzica il capezzolo dell’altra. Entrambe sono perse e compagne nella semplicità di corpi perlacei torniti da profili stilizzati. Astratte, diremmo oggi, benché inserite in una scena domestica, ripresa da Sophie Ullrich in opere che alternano puntualità descrittiva, con chiaro rimando al quadro d’origine, e azioni esplicitate di corpi e arti dai tratti organici e schematici, naturali e geometrici. La tensione dell’oggi come una costrizione, la noia che a volte manca, lo yoga casalingo ai tempi della pandemia, la routine che strizza l’occhio al diversivo e allo svago, al passatempo del piacere: la qualità umana classica del desiderio tragicamente disilluso, eppure amato con le lacrime della passione. Guardare indietro per volgersi d’un tratto in avanti e comprendere un poco di più la condizione fisica e mentale del presente. Nella mostra Tales of the Future (31 Marzo – 28 Aprile 2022), tre artisti cinesi ne consideravano gli effetti. Attraverso la stesura svelta e dinamica del colore, le forme e le figure nelle opere di Meng Yangyang (1983, Chongqing) si approssimavano al quadro secondo l’attesa dell’evento. Trovare e conoscere, trovare e riconoscere tracciando una storia di particolari elementi dipinti, cuciti e da ricucire con gli occhi seguendo l’armonia di una narrazione visiva; la visione del tempo, la visione del senso che chiede al tempo la sua compostezza, l’unità dello spazio che Kang Haoxian (1989, Shangdong), dal canto suo, ha avuto invece la forza di fermare attraverso rappresentazioni nitide e riflessive, ambigue e misteriose, enigmatiche nel loro implicito erotismo. Quel che pareva essere fermo era l’istinto proprio della cultura popolare evidente, per converso, come vortice frammentato di ricordi, nelle opere di Yirui Jia (1997, Cina). Ritornano così l’umore e l’inclinazione ossessiva del gesto rapido e scarnificato, mentale ma radicalmente concreto. Fondato nell’hic et nunc, sulla necessità di un presente che si affaccia oltre che sui campi del lavoro pittorico, sulla memoria congenita della storia. La storia come ispirazione e la storia come fonte originaria in cui si inserisce il turbamento dell’ora. Qui, adesso, da qualche parte nel tempo, cita l’ultima esposizione proposta (Somewhere in Time, 16 Novembre – 30 Dicembre 2022), per la quale, sotto la curatela di Sabrina Andres, è stato chiesto al pittore Dante Cannatella (1992, New Orleans) e alle pittrici Diane Chappalley (1991, Svizzera), Whit Harris (1985, Brooklyn, NY) e Soko (1995, Argentina) di scegliere un’opera del passato e di utilizzarla come punto di partenza per ulteriori traiettorie e ulteriori dialoghi. Il Polittico della Misericordia commissionato a Piero della Francesca nel 1445, The Night (1889/90) dell’artista Ferdinand Holder, Le Bonheur de Vivre (1905/06) di Henri Matisse e Il rapimento delle figlie di Leucippo, realizzato da Peter Paul Rubens nel 1618 sono rispettivamente i quadri scelti. Quadri che non dominano, giacché non deviano l’usuale cammino poetico intrapreso dai quattro artisti, ma ne decretano il nesso di contemporaneità possibile. La sfasatura temporale dovuta a ciò che è passato, che irrompe nell’urgenza dell’istante, trasformando e generando.

Luca Maffeo


Instagram: tube_culture_hall


Caption

Danny Avidan, The Tragedy of Acis and Galatea, 2022 – Installation view, Tube Culture Hall, Milano – Courtesy Tube Culture Hall

Sophie Ullrich, Bored queen overlooks her fields, 2021, installation view, Tube Culture Hall, Milano – Courtesy Tube Culture Hall

Sophie Ullrich, Bored queen overlooks her fields, 2021, installation view, Tube Culture Hall, Milano – Courtesy Tube Culture Hall.

Yirui Jia, Kang Haoxian, Tales of the future, 2022, installation view, Tube Culture Hall, Milano – Courtesy Tube Culture Hall.

Meng Yangyang, Tales of the future, 2022, installation view, Tube Culture Hall, Milano – Courtesy Tube Culture Hall

Somewhere in time, 2022, installation view, Tube Culture Hall, Milano – Courtesy Tube Culture Hall