Interno cortile a due passi dal Naviglio grande. Il luogo è un tunnel scuro illuminato da scritte al neon alle pareti. Un attraversamento solitario tra le intermittenze blu e una tenda nera che proietta, superata la soglia, nel luminoso e camaleontico universo dello studio AR.CH.IT, di Luca Cipelletti.
Uno spazio continuo senza divisioni. Il pavimento in cemento e l’involucro museale rivelano un’anima industriale suggerita dal soppalco di ferro. L’ambiente è scaldato dalla presenza del legno, materiale scelto come soluzione estetica per i progetti di design, la libreria in fondo alla parete e i lunghi tavoli XYZ.
Un purismo volumetrico che non ha bisogno di artifici o composizioni sceniche perché le scenografie sono costruite solo attraverso il suo lavoro di architetto e museografo.
Con una profonda e disarmante coerenza, Cipelletti ci racconta l’agire autentico in quel sottile confine tra discipline che, pur mantenendo ognuna una propria autonomia, avviano dialoghi inattesi. Proprio da questo incontro nascono le sue Conversazioni tra arte e architettura, relazioni costruite attraverso la stratificazione di memorie che si inseriscono nello spazio lasciando traccia e residui di quelle narrazioni, geometriche per Davide Tremlett, raffinate e eleganti per Anne e Patrick Poirier con Architectures des Mémoires.
La sua professione la conduce inevitabilmente a maturare una sensibilità verso il dialogo tra arte e architettura. Come nascono le sue “Conversazioni”?
Ci occupiamo di architettura e museografia. Costruiamo e inventiamo musei da zero, come il Museo della merda a Piacenza. Recuperiamo edifici dismessi e li ristrutturiamo per farli diventare contenitori espositivi, così come ci dedichiamo agli allestimenti delle mostre temporanee. Ho iniziato da giovane con quelle dedicate al design. Ho imparato a conoscerne le esigenze espositive, gli artisti e il rapporto con Massimo Valsecchi è stato per me illuminante.
Una conversazione tra i due settori è esistita già in tempi lontani, nel Rinascimento. Ho solo trovato una continuità in un percorso dialettico tra esporre arte e creare contenitori coinvolgendo gli artisti in progetti di architettura. È un lavoro molto complesso, da tanti punti di vista e tutti devono fare un passo indietro, architetto e artista. Questi ultimi sono spaventati perché la scala dell’intervento è molto grande, si interagisce non solo con lo spazio ma soprattutto con il concetto di funzionalità.

Ha detto che lavorare con un artista significa fare un passo indietro. Cosa vuol dire?
È vero, è un aspetto molto importante e difficilissimo che aggiunge valore. Non è mai un lavoro di traduzione ma il risultato collettivo frutto di una conversazione continua che produce risultati, spesso inaspettati. Con gli artisti maturi è più facile questa relazione perché, considerando la complessità del tema, sono necessari un certo grado di consapevolezza e esperienza. Dobbiamo ricordare che non si tratta di una mostra o di un’installazione effimera ma piuttosto di un oggetto permanente e per questo è più articolato ma è altrettanto affascinante.
Un anno e mezzo fa ho ristrutturato lo studio dove lavoro da dodici anni. Ho realizzato il primo intervento con David Tremlett, protagonista della prima edizione di Conversazioni tra arte e architettura, il suo lavoro esiste ancora sulla parete. Anne e Patrick Poirier li conosco da molto grazie proprio a Valsecchi. Ho scelto di aprire con loro questa seconda edizione perché era una naturale conseguenza in seguito al progetto del Giardino della memoria, una necropoli contemporanea.
I coniugi Poirier, artisti francesi classe 1942, conducono un’indagine sulla memoria, storica e personale, collettiva e individuale. Il loro procedere è frutto di approccio analitico volto alla scoperta o alla rivelazione della storia dell’uomo, passata e presente. Qual è la storia che ci vuole raccontare con questa mostra?
Architectures des Mémoires racconta del viaggio e del tempo ma soprattutto della fragilità dell’uomo che ha bisogno di memoria per poter andare avanti. Senza memoria non siamo in grado di scrivere un presente e di costruire un futuro. Questo presupposto è fondamentale. La loro è una ricerca attuale, dalla fine degli anni Settanta si concentra nei territori della Mesopotamia e quindi nella culla di tutte le civiltà, nelle terre che si trovano tra il Tigri e l’Eufrate, ovvero le attuali Siria e Iraq, come in Diaporama, un video in 3D e in Mésopotamie, monocromi alle pareti. Tele scultoree che mettono in rilievo, attraverso pennellate tutte rivolte in una stessa direzione, l’archeologia di Palmira e Aleppo. Topografie, al contrario, nascoste nella versione in nero, rappresentante luttuosa della distruzione causata dal passaggio dell’uomo e dalle guerre che trasforma il territorio e cancella la memoria stessa.
Come il contenuto, anche gli strumenti utilizzati nella loro produzione sono memorie non più usate ma recuperate dagli archivi. Polaroid scattate nelle banlieau parigine in Banlieau Exotica, paesaggi urbani travolti dall’esondazione della Senna in cui l’elemento della natura prende possesso della terra ingoiando architetture funzionali ma prive di qualunque progettualità o pensiero.
Il procedimento cibachrome è presente in Sans titre, una grande foglia di tiglio che idealmente anticipa il progetto del Giardino della memoria di Gorgonzola. La fotografia stereoscopica è utilizzata in Stéréoscopique Carsulae che ritrae i resti di una città umbra e in Souvernirs Stéréoscopique in cui il protagonista è il personaggio di un libro già soggetto di indagine sia psicoanalitica sia per i surrealisti.
Il Giardino della Memoria è definito “un’architettura-in-forma-di-paesaggio”. Un luogo da umanizzare nella ricerca degli artisti che ha subito numerose trasformazioni. Lei dice che “un buon progetto deve essere in grado di trasformarsi”, quali ritiene siano state le difficoltà maggiori in questo lavoro?
Ha una genesi particolare. Da duecento anni siamo abituati a vedere cimiteri sostanzialmente uguali. La normativa impone la progettazione di luoghi freddi, con una pianta ortogonale, rigida e poco adatta all’esperienza che il luogo richiede, quello del dolore e della memoria.
L’idea era realizzare un giardino della memoria con un concetto più vicino all’idea di necropoli, una città dei morti più simile a un giardino come hypnos, avvicinando il luogo della sepoltura a un ambiente più naturale (anche nella sua forma), nel tentativo di costruire uno spazio che accolga in una dimensione più intima.
I Poirier sono esperti di essenze arboree che usano anche nelle loro opere. La foglia di quercia, ha una simbologia in diverse culture e religioni e assume qui un ruolo fondamentale rendendosi impianto planimetrico del progetto. Le venature delle foglie, ben evidenti nella radiografia della foglia di tiglio in mostra, diventano i viali alberati che conducono alle tombe.
Il progetto ha subito interruzioni per via di cambiamenti di amministrazioni e fallimenti di imprese, ma anche una pesantissima riduzione di budget. Il nuovo piano cimiteriale ha previsto un numero inferiore di tombe. L’edificio principale, una barca rovesciata, è stato trasformato in un oggetto un monolitico di cemento bianco esattamente uguale alla maquette, sostituendo l’iniziale realizzazione con il vetro di Murano e mettendo delle piante più piccole intorno ai vialetti. All’inizio c’era molta preoccupazione e sembrava una sfida impossibile. I compromessi trovati e le modifiche tecniche ci hanno permesso però di preservare l’identità di un’opera d’arte pubblica con un suo valore artistico immenso e una utilità specifica come luogo per eccellenza della memoria e del ricordo.

Il privato è sempre più attivo e presente con iniziative e progetti inseriti in contesti lontani da gallerie e istituzioni, contribuendo a creare una sorta di “museo diffuso”. In quest’ottica e come architetto ritiene sia ancora necessario alla città un Museo di arte contemporanea?
Cinque anni fa si è smosso qualcosa sotto il pavé dando avvio a una sorta di rinascita, forse per disperazione. I privati, piccoli o grandi che siano, sono sempre stati la quintessenza della città, a partire dal giorno uno. Sono milanese da generazioni e ritengo che ci sia un’energia straordinaria. Non è una città di facciata ma permette una regia espositiva continua. Ogni porta è una scoperta perché dietro ognuna di queste si rivela un mondo. Ad esempio, qui da noi, aprendo una porta c’è un’installazione, un neon blu con una serie di scritte con i nomi delle costellazioni che anticipano un altro spazio.
Sono molto felice di queste conversazioni e sono convinto che l’arte da un po’ di tempo rifugga dai white cube o dai musei in cerca di altri luoghi. Mi colpisce l’interesse del pubblico al quale raccontiamo per due settimane i vari progetti di arte e design. È un processo di connessioni e stratificazioni. L’intervento di Tremlet dell’anno scorso convive con le architetture della memoria dei Poirier e con quelle più pratiche dei tavoli XYZ che diventano anche strumentali alla mostra.
Ho salutato con grande favore altre iniziative come Converso dello studio CLS architetti, con Massimiliano Locatelli. La sua è una conversione dello spazio, le mie sono conversazioni con gli artisti, progetti e luoghi diversi ma ognuno con una sua peculiarità. Così come quelle di Tiziano Vudafieri (Vudafieri Saverino Partners) o di Paola Clerico con il progetto Case Chiuse. Pensi che la prima edizione è stata realizzata nella mia vecchia casa in corso Garibaldi.
A Milano non serve un museo ma piuttosto una maggior coesione tra queste iniziative. I privati hanno sostituito il pubblico e credo che oggi per una qualsiasi amministrazione sarebbe impossibile creare una collezione da zero.
Progetti futuri?
Avrei mille idee ma adesso mi piace pensare di sviluppare i progetti con coloro con cui abbiamo collaborato o stiamo collaborando. Ho bisogno di un legame, di un collegamento e una storia diretta con gli artisti, al contrario significherebbe non conoscersi e avere altre persone di mezzo, gallerie o istituzioni con cui si svilupperebbero altre dinamiche.
Montiamo tutto noi in studio perché siamo abituati a esporre, ci occupiamo delle assicurazioni, dei trasporti, della stampa dei pieghevoli per il pubblico. Per questo le mostre non hanno curatela, non c’è mai una ridondanza e sarebbe sbagliato, dal mio punto di vista, se ci fosse perché si perderebbe il dialogo tra le parti e diventerebbe qualcosa di mediato.
Le dico perché espongo qua tavoli e opere, per una ragione semplice, perché queste sono occasioni di scambi e collaborazioni possibili senza perdere la propria competenza. Mi piace pensare al mio ruolo come a un facilitatore tra due realtà e due progetti in una reale conversazione con gli artisti.
Elena Solito
ANNE E PATRICK POIRIER
ARCHITECTURES DES MÉMORES
12 Aprile – 22 Aprile 2018
su appuntamento sino a venerdì 11 maggio 2018
AR.CH.IT Luca Cipelletti – Via Pasquale Paoli, 8 – Milano
In collaborazione con GALLERIA FUMAGALLI
Immagine di copertina: Luca Cipelletti – XYZ Architectonic Furniture Made-to-Measure. Sul fondo Mésopotamie e Moyen Orient, Anne e Patrick Poirier – Courtesy AR.CH.IT Luca Cipelletti, ph Henrik Blomqvist