Platea Palazzo Galeano è un’associazione culturale di Lodi nata con l’obiettivo di sostenere la produzione artistica contemporanea attraverso la promozione di giovani artisti. Lo spazio espositivo, inserito nella cornice seicentesca di Palazzo Galeano, è essenziale e affacciato su strada.
L’attuale stagione espositiva è stata curata da Giulia Menegale in dialogo con Luca Trevisani, il quale ha selezionato i quattro artisti-allievi partecipanti al progetto e che con Notes for dried and living bodies in Corso Umberto, ha proposto un’installazione site-specific con l’obiettivo di ridiscutere la percezione comune della natura come realtà altra rispetto alla dimensione umana.
Deborah Martino, con Piccolo celeste, ha esposto una trentina di sculture appositamente modellate per Platea, utilizzando carta velina, plastilina e argilla.
Alessandro Manfrin, con Blueback, ha esposto una serie di manifesti pubblicitari recuperati dalla città, rovesciandoli e riassemblandoli: lo spazio della vetrina, colorato azzurro cielo, ripropone uno scenario da Il cielo in una stanza.
Maria Vittoria Cavazzana con Ho visto le viscere dell’angelo ed erano nere come il carbone ha sospeso a mezz’aria una spada, accompagnandone la visione con un soundscape richiamante l’universo del gaming e realizzato insieme a Riccardo Salin.
Marco Sgarbossa ha invece installato una macchina sparabolle, dalla quale vengono soffiate una dopo l’altra le bolle di sapone che si infrangono contro il vetro di Platea.
L’attuale stagione espositiva a Platea nasce dalla tua attività curatoriale e dal dialogo instaurato con Luca Trevisani. Come si è sviluppato questo dialogo e rapporto nella progettazione delle singole mostre personali?
Il dialogo instaurato con Luca Trevisani si è evoluto e plasmato sui bisogni degli artisti selezionati. Il nostro non è stato un rapporto di dipendenza ma un dialogo co-curatoriale nel quale io e gli artisti ci siamo lasciati in parte guidare da Luca, mantenendo allo stesso tempo viva l’idea di costruire un confronto e un dialogo condiviso e fluttuante tra di noi.
La riprogettazione del poster che viene distribuito in occasione degli opening di Platea è stata la conseguenza più diretta ed evidente di questo nostro rapporto. Nella sua scorsa edizione, il poster era caratterizzato da un’intervista tra il curatore e l’artista esposto in vetrina e da un breve testo di presentazione sull’opera installata; noi abbiamo invece deciso di giocare con questo formato, cercando di ri-significarne il valore effettivo in quanto medium. Al suo interno abbiamo ovviamente costruito una narrazione che fosse incentrata sull’artista esposto in quel momento e la sua opera, ma dando corpo a un dialogo collettivo.
Le nostre sono pubblicazioni corali e se si collezionassero tutti i poster realizzati per questa stagione si potrebbe accedere a un unico ampio dialogo. Queste pubblicazioni sono state per noi un’occasione di raccontare e raccontarci delle storie, basandoci inoltre sull’importanza che le pubblicazioni e le riviste hanno all’interno della ricerca di Luca.
L’attuale stagione, esattamente come la precedente, si è progettata sul format espositivo maestro-allievi. Che tipo di rapporto e di continuità è stata costruita a livello artistico e curatoriale tra l’opera di Trevisani e quelle dei suoi giovani “non-allievi”, come egli stesso li definisce?
Riascoltavo in questi giorni alcune interviste passate di Luca nelle quali si definisce scultore in quanto interessato alla materia e alle storie che si possono raccontare intorno a essa: questa curiosità e questo interesse non solo erano un elemento condiviso nell’opera degli artisti selezionati ma è divenuto un vero e proprio leitmotiv sul quale abbiamo impostato l’intera stagione espositiva. Tutte le opere sembrano vertere su narrazioni e storie apparenti, ma mai così ovvie in quanto animate da un’indagine semantica: il loro è un tentativo di conoscenza e approfondimento rispetto al mondo che ci circonda.
Nel lavoro realizzato per Platea da Luca Trevisani, Notes For Dried And Living Bodies, emerge un’indagine su cosa noi consideriamo “natura” e “artificio”, analizzandone la dicotomia. Deborah Martino, seppur non si possa propriamente definire scultrice poiché lavora con differenti e molteplici media, ha realizzato delle opere nelle quali la materia assolve il ruolo di scrittura, delineando il “fare arte” come parte di un unico e ampio processo autoriflessivo. La sua è una scrittura diaristica nella quale le sculture hanno una consistenza volutamente effimera e raccontano storie legate ai corpi – spesso anche molto personali – e che aggregandosi in vere e proprie famiglie materiche si orientano poi verso un racconto ampio, condiviso e sociale.
Nel lavoro di Alessandro Manfrin i materiali impiegati sono quelli che possiamo trovare per strada nella quotidianità urbana: l’opera ci racconta le storie celate intorno al blueback – ovvero lo strato blu posto sul retro dei poster e che serve per affiggerli – ma anche dei desideri prodotti e consumati dalla città e dalla sua forza erotica. Le storie e i materiali dell’opera di Maria Vittoria Cavazzana riguardano principalmente il gaming e la fantasia, dando forma alla differenza esistente tra mondo fisico e realtà virtuale, immateriale e immaginaria.
Marco Sgarbossa, utilizzando una macchina sparabolle che attira il nostro lato infantile, racconta storie che raggiungono l’assurdo. Prendendo però le distanze dalla costruzione teatrale e fantastica dell’opera di Marco e leggendo gli ingredienti che compongono le bolle, veniamo a conoscenza che queste sono diluite con antidepressivo: in questo senso si crea una chiusura quasi sarcastica, una battuta di spirito che lascia con l’amaro in bocca ma allo stesso tempo svela un significato nuovo di quanto visto e detto in precedenza, permettendoci di indagare in profondità tutti i layer dell’opera senza fermarci alla sua apparenza.
Tra gli artisti esposti sembrerebbe esserci una tendenza condivisa nell’enfatizzare la dimensione materica e generativa dell’opera d’arte, spesso come incontro dicotomico tra le categorie di “naturale” e “artificiale”. Secondo te, da cosa è determinata questa tendenza espressiva e verso cosa si proietta sul piano comunicativo?
Parlerei di attitudine e atteggiamento per non livellare a un’univoca interpretazione il lavoro di tutti gli artisti, rispettandone così le singole personalità, il gesto artistico e il loro personale approccio alla materia.
Per noi la vetrina non è stato un semplice white cube nel quale appendere delle opere, ma un’occasione per esporre un chiaro commento, uno statement, sulla realtà che ci circonda.
Un’impostazione artigianale tout court e di carattere alchemico è evidente nell’opera di Mara Vittoria Cavazzana: la sua non è un’ossessione per il craft, ma una vera e propria esigenza di rendere la sua opera verosimile. La sua spada doveva essere attraente, potenzialmente tagliente e il più preziosa possibile per suscitare nello spettatore il desiderio di entrare nella vetrina per appropriarsene, proprio come all’interno della realtà virtuale e del gaming.
Nel caso di Marco Sgarbossa, la macchina sparabolle – realizzata con stampa 3D – è stata progettata per delegare l’azione performativa dell’opera stessa e sopperire all’impossibilità di poter essere sempre presente nello spazio espositivo per soffiare le bolle di sapone.
In Alessandro Manfrin la manualità si esprime attraverso la valorizzazione dell’azione, la quale non si inserisce nei confini tradizionali delle Belle Arti, ma si avvicina alla realtà di chi affigge i cartelloni e i poster nelle grandi città, emulandone i gesti. In Deborah Martino, l’elemento della manualità è molto più esplicito in quanto le sue sculture sono animate da molteplici ditate: in questo caso l’azione generatrice diviene meditativa, dando corpo a una sorta di scrittura automatica che ricade attraverso il gesto nella materia.
Un tema ricorrente in questa stagione è stata la costruzione di una realtà parallela in vetrina – una sorta di Arcadia – in cui far confluire tematiche legate all’attualità. Nella fruizione di queste opere emerge una leggera sottotraccia critica nei confronti dell’attualità che al contempo non si definisce engagé o impegnata. Anche lo spazio espositivo della vetrina tende a rafforzare l’immagine di una comunicazione allargata e collettiva che occupa pragmaticamente lo spazio pubblico.
Secondo te, sussiste effettivamente una tensione politica nelle opere presentate dagli artisti?
Nel caso di Platea, direi che le opere presentate dagli artisti sono sintomatiche in questo senso poiché parlano del nostro tempo, senza effettuare un intervento diretto sulla realtà. Tutte le opere nascono da storie personali in cui emerge il tentativo di capire e orientarsi nel mondo, analizzare con occhi nuovo quello che vediamo, di leggere attraverso e immaginare.
L’enfasi sulla dimensione generativa e materica dell’opera, e la volontà di istituire una dimensione parallela in cui poter agire sembrerebbero essere elementi di continuità anche con la precedente stagione espositiva di Platea. Si può davvero parlare di una continuità curatoriale con la stagione precedente? In questo caso, quale ruolo gioca il peculiare spazio espositivo della vetrina?
Non c’è stata una continuità diretta, ma esistono effettivamente molti punti di convergenza: le due stagioni in primis hanno fatto parte di uno stesso format, costruito sul rapporto tra artista luminare e i suoi studenti; gli artisti esposti appartengono tutti alla stessa generazione – anni Novanta – e questo ha determinato una certa armonia e una serie di interferenze, facendo sì che tutti avessero una visione affine della realtà e sensibilità epocale.
Le due stagioni sono state entrambe realizzate all’inizio del percorso di Platea, ovvero un percorso di educazione che vuole far inciampare le persone nell’arte – anche quelle non propriamente interessate – stimolandone le riflessioni e coinvolgendole nella propria attività espositiva. Il progetto ha una grande considerazione del pubblico con cui dialoga e propone progetti che portano sempre più in là il limite di quanto si vuole mostrare, con l’obiettivo di rivalorizzare una cittadina come Lodi attraverso l’arte contemporanea.
Oggi il ruolo del curatore è soggetto a molteplici critiche: l’edizione di Documenta di quest’anno ha promosso una profonda riflessione su quale sia il punto zero della pratica curatoriale e quali siano i suoi limiti nella mediazione tra artista-opera-pubblico. Anche Claire Bishop ha più volte affermato come la curatela sia una pratica assertiva e vincolante, atta a tessere una narrazione univoca e personale rispetto al lavoro degli artisti. Qual è la tua posizione in merito?
È una domanda che mi sono posta anche io nella gestione del progetto espositivo di Platea e dello spazio della vetrina.
Dal mio punto di vista, il lavoro del curatore si sviluppa attraverso il dialogo intessuto con gli artisti e nell’aiutarli a sviluppare le loro idee nella realizzazione del display finale, ragionando insieme sullo statement da presentare. Nel caso di Platea, è stato necessario instaurare un dialogo anche con Claudia Ferrari e Carlo Orsini, rispettivamente presidente e direttore artistico: Platea è un progetto pubblico che ha delle responsabilità nei confronti della città di Lodi e del suo pubblico. Il lavoro del curatore è un interplay nel quale è necessario calibrare il rapporto con il pubblico, gli eventuali committenti o le istituzioni e la volontà dell’artista.
È un lavoro di cura e di responsabilità nei confronti delle entità coinvolte e di restituzione del lavoro svolto attraverso la scrittura: l’obiettivo è rendere leggibile quanto realizzato e posizionare l’opera all’interno di una consapevole dimensione storica e di attualità – personalmente preferisco concentrarmi su quanto succede intorno a noi piuttosto che sulle grandi genealogie storiche. Il ruolo del curatore è ascolto attivo, relazione e co-produzione del display finale senza strumentalizzare il lavoro degli artisti con cui collabora.
A cura di Eva Adduci
Instagram: platea_palazzogaleano
Instagram: giuliamenegale
Caption
Luca Trevisani, Notes for dried and living bodies in Corso Umberto, 2022, installation view at Platea – Courtesy Platea, ph. Alberto Messina
Alessandro Manfrin, Blueback, 2022, installation view at Platea – Courtesy Platea, ph. Alberto Messina
Debora Martino, Piccolo Celeste, 2022, installation view at Platea – Courtesy Platea, ph. Alberto Messina
Maria Vittoria Cavazzana, Ho visto le viscere dell’angelo ed erano nere come il carbone, 2022, detail – Courtesy Platea, ph. Alberto Messina
Marco Sgarbossa, 2022, installation view at Platea – Courtesy Platea, ph. Alberto Messina