paradise is exactly like where you are right now only much, much better

Realizzato a cura di Marta Orsola Sironi e Virginia Lupo (Art Direction, Manuela Nobile; Exhibit design, Andrea Isola; Exhibition Set-Up, Crates) in collaborazione con Untitled Association, e ospitato presso Palazzo Franzone Spinola di Luccoli, nel centro storico di Genova, paradise is exactly like where you are right now only much, much better è un progetto che raccoglie ventidue artisti emergenti italiani e internazionali, quattro gallerie (Ncontemporary, eastcontemporary, White Noise e UNA) e curatori o collettivi curatoriali chiamati ad ampliare ogni settimana il percorso espositivo.

In qualità di media partner, lasciamo agli interventi che seguono approfondire i temi di una mostra che prende spunto dalla stretta correlazione che oggi si riscontra sempre più tra giustizia ambientale e sociale, e le ricerche in materia di sex ecologiese e femminismo intersezionale attraverso un ripensamento della normatività umana, e della stessa pratica curatoriale.



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Appunti per una ricerca: intervista con Nuvola Ravera
Intervista a cura di Giuseppe Amedeo Arnesano

L’esposizione collettiva Paradise is exactly like where you are right now only much, much better è stata ospitata nelle sale di Palazzo Franzone Spinola di Luccoli a Genova.

L’intero progetto, a cura di Marta Orsola Sironie Virginia Lupo, presentava una metodologia estetica, organica, concettuale e di indagine ragionata, un’operazione dinamica e di ampio respiro pensata sulle opere di ventidue artisti, sulla dimensione spaziale e storica del luogo e sul confronto critico.

Da qui l’invito ricevuto come curatore e la mia scelta di contribuire in modo specifico, prendendo in esame parte della ricerca di Nuvola Ravera (Genova, 1984) e ragionando insieme all’artista sull’importanza del processo artistico, teorico e materico che le appartiene, attitudine di natura puramente wagneriana (Gesamtkunstwerk). Attraverso l’intervista abbiamo l’opportunità proporre, archiviare e documentare un tempo presente, suggestioni visive di una necessità espressiva che diviene traccia antropologica, una dichiarazione personale di ciò che si è. In questa conversazione Nuvola Ravera si esprime in maniera parmenidea (to eòn, ta eònta) su alcuni passaggi fondamentali riguardanti la sua ricerca, in questa intensa narrazione l’artista si esprime sulla sua identità che è quella imprescindibile dell’essere.

Quali sono gli argomenti e le letture che caratterizzano il tuo campo di indagine?

Credo di muovermi e di avere bighellonato in maniera piuttosto ossessiva fra due poli. Da una parte c’è una forte relazione con un paesaggio infantile che esplora e richiama un selvatico perduto. Attraverso le diverse lenti delle discipline PSI, delle scienze sociali e antropologie contemporanee che espandono la nozione di comunità al di là di quelle umane, nascondo nei lavori un certo valore di relazione fra enti. Il ricordo del magico e della meraviglia appartenenti alla dimensione del gioco nell’infanzia insieme al richiamo a diverse cosmogonie, mi sono utili come azione di comprensione, gestione e studio della realtà. Da qui emerge l’approfondimento di stati non ordinari di coscienza che si basa sulla continua osservazione di sogni notturni, allucinazioni ipnagogiche e rêverie (mie e di altrə) proprio come testi e libri di inconsci da rileggere per associare le urgenze personali a quelle di diverse collettività.

Dall’altro lato invece, ci sono delle figure ricorrenti che sono parenti, maestre, attrici ed attori attanti della mia ricerca. Associo il corpo agli spazi antropizzati e non, la psiche alla sua antica funzione vitale di respiro quindi all’aria – animus del mondo. Così argomento di vita, diventa il campo della cura e dell’igiene tanto nelle zone di guarigione e malattia quanto in quelle estetiche e poetiche di spazi espositivi dell’arte.

Mi interessano i modi specifici di vivere e di morire, di sopravvivere attraverso atti generativi e creativi, le scelte d’uso delle risorse energetiche, così come la facoltà che diamo agli strumenti culturali di preservare e ricordare i beni materiali e affettivi, quel valore che diamo ai nostri (s)oggetti.

In Invention du quotidien Michel de Certeau parlava di atti di resistenza per reagire alle strategie messe in atto dalle istituzioni sociali che consentano agli utenti di trasformarsi in «immigrantə» all’interno della cultura dominante e scardinare l’assimilazione delle regole e delle forme sociali imposte quotidianamente da uno sbiancamento “culturale”.

Sei un’artista dalla ricerca trasversale, e nel tuo lavoro coniughi sempre con un’intensa dottrina poetica forme, linguaggi e tecniche artistiche differenti. Quali sono le tue prime suggestioni in occasione di un nuovo progetto e come arrivi alla formalizzazione oggettiva e concettualmente concreta delle tue opere?

Il percorso di arrivo ad una formalizzazione partendo da un dato contenuto e scopo progettuale è sempre un lungo camminamento che porta a sintesi formali non predeterminate.

Molto dipende dai contesti in cui mi trovo a lavorare e dalle persone con cui stringo relazioni. Chiaramente è importante muoversi attraverso una ricerca sul campo in dialogo con i soggetti incontrati in modo da far emergere le complessità e corto-circuiti dell’incontro.

A volte invidio il lavoro di studio svolto da alcunə artistə con materiali più sicuri e ricorrenti, modalità alla quale non sono molto avvezza ma che trovo rassicurante, coraggiosa e disciplinata.

Per i materiali invece?

I materiali che uso dipendono spesso dallo spazio e dall’identità del paesaggio intorno, in sintonia con il contenuto di ricerca che sto portando avanti. Spesso passo un tempo lento a frequentare un posto. Cerco supporti teorici al nostro fare e sviluppo momenti di conversazione e di raccolta materiali (reperti, inquadrature e tracce). A seguire sovrascrivo su queste scoperte installazioni organiche, talvolta poco durature che vengono sollecitate da piccole azioni che riportino una narrazione più ampia che superi l’oggetto/opera, o almeno ci provi. Questi oggetti funzionano come strumenti- feticci per invitare un parlamento invisibile a discutere di un fenomeno. La scrittura poi, quando non diviene il fine, è certamente una ricorrenza che mi permette di arrivare ad una formalizzazione dopo aver fatto forma del pensiero. Il punto di partenza, quando non mi trovo ad operare in un luogo specifico, sono proprio i lavori precedenti che servono come appiglio per continuare a discutere certe tensioni che mi caratterizzano. Molti progetti nascono proprio sui sedimenti delle ricerche già avviate.

La dimensione spaziale è di grande importanza e spesso è parte integrante della tua visione. In che modo elabori la percezione estetica e identitaria del luogo con una narrativa che riguarda vicende antropocentriche, antropologiche e relazionali?

In generale mi rifaccio al concetto di “residuo psichico dei luoghi” che avevo ipotizzato a Venezia nel confronto con Laura Castellani, una terapeuta della gestalt con cui ho collaborato per mettere in discussione il setting terapeutico e il concetto stesso di paziente e terapia. In questa occasione attraverso un lavoro articolato di prelievi di acque, ricostruzioni bidimensionali e tridimensionali del corpo cittadino e una psicoterapia alla laguna (“Se piango tanto la Laguna diventa mare?” 2017/ “Big babol” 2018) avevamo fatto delle sedute all’aperto cercando un tessuto inconscio di cui abbiamo immaginato essere pregni gli ambienti con cui ci relazioniamo. Questo approccio è stato integrato poi nei lavori futuri e spostato in altri territori come il salentino, il santuario dei cetacei in Liguria, il sistema fluviale genovese e il quartiere dormitorio Diamante a Genova. Attribuendo soggettività allo spazio, ai luoghi e a tutte le cose che li determinano, la narrazione di fondo è sempre un interrogarsi sugli equilibri e le forze tra diversi soggetti.

In questo caso come cambia il luogo?

Il luogo diventa un compagno complesso con cui dialogare, a volte ci contiene e tiene, altre ci riporta a una impossibilità di incontro o si manifesta fortemente portatore di fratture a causa dei percorsi storici di cui ha fatto esperienza. La nostra presenza e convivenza in diverse istanze politico- sociali si intersecano in maniera talvolta conflittuale con quelle culturali e biologiche- ambientali. Sul piano simbolico ed estetico cerco di tessere spesso questa analogia fra corpi anatomici umanə, corpi architettonici e infrastrutturali e corpi biologici animati e altri tipi di esseri.

Qual è l’importanza delle forme di documentazione e archiviazione nella contemporaneità all’interno del processo artistico?

Qual è la problematicità direi! Ma certamente è utile domandarci anche l’anatomia delle diverse urgenze nel comprendere il senso di un gesto impossibile, disperato e innamorato della vita e delle sue tracce. E’ un gesto primordiale, credo, quello di fare orma – documento, portare testimonianza, archiviare ciò che si può di fronte all’abisso della scelta, della selezione e quindi della sofferta o liberatoria esclusione come la fatica a determinare importanze ed attributi di valore ai nostri artefatti e gesti. Penso ai documenti come a forme vive e organiche parlanti, non fisse. Ricostruiscono e inventano pezzi mancanti di una storia, fantasmi di un accaduto non tracciato. Noi li frequentiamo, avidi di relazione, di scoperta, feticisti in alcuni casi del numerabile e del tangibile. Così il contemporaneo mischia continuamente le carte, fa sparire le tracce, racconta eventi mai avvenuti, ritorna sul luogo del delitto, rimugina su un frammento, lo incendia, spacca monumenti li riscrive, per farne parchi a tema per discutere una mono-storia dei vincitori. Documentiamo l’invisibile, il non riproducibile o raccontabile a volte per attaccamento, a volte per necessità di mercato, a volte per fede. Le opere possono vivere senza arrivare nei musei? Negli archivi? Possiamo dire che un tal giorno, alla tale ora qualcosa di importantissimo sia accaduto senza titoli di prova?

In mostra presenti le seguenti opere: Idrofila, Museo, e Santuario, tutti lavori peculiari e organici realizzati in diverse occasioni, ma accomunati da un unico comun denominatore che interessa la memoria intesa come resti, frammenti e residui. Qual è il valore simbolico e intrinseco che lega questi tre lavori?

Sì, in mostra ho pensato di rieditare questi tre progetti per ricapitolare e rivedere la mia posizione dopo un periodo come quello pandemico in cui tanti gesti e pensieri sono stati congelati e abbiamo rimesso in discussione sia a livello di senso le nostre produzioni che di significato e potere dei ruoli culturali che rivestiamo in una società fragile e disgregata.

Quindi come spesso mi capita, sono ritornata sui miei passi per evolvere e portare avanti alcune considerazioni sulle tracce e sulle forme di opere che per loro natura sono in attesa di essere manomesse. Ho ripreso così in mano “Soap opera” (2018) da cui è emerso “Idrofila”, “Peeling” (2018) che ha dato vita a “Museo” e “Big Babol” (2017-2021) da cui sono stati presi alcuni fotogrammi per” Santuario”. I tre lavori a cui i tre “glitch” in mostra fanno riferimento risultano essere indicazioni e istruzioni generali tutt’oggi rilevanti per il lavoro che sto portando avanti.

“Idrofila”, parente di “Soap Opera” ad esempio richiama il lavoro realizzato a Napoli in collaborazione con l’architetto Giuseppe Ricupero, con il quale sono stati sviluppati settanta metri quadri di piastrelle in sapone artigianale composto da sabbie vulcaniche, pigmenti vegetali e olii afrodisiaci. Questa pavimentazione lavabile è nata in stretta relazione con il paesaggio superfetato della città, in eco con le stratificazioni archeologiche locali e le antiche figure dei saponari, criticamente per noi molto affini a quella dell’artista. Di volta in volta è stata esposta e ricomposta come moduli Tangram cambiandone forma e distribuzione in base ai luoghi con i quali entrava in relazione. Si è poi completata attraverso un’azione di lavaggio e dissoluzione. Un’operatrice alle pulizie lavando via per mezzo delle mattonelle stesse una piccola parte dei moduli dell’opera, ha introdotto attraverso il suo gesto ripetitivo quel cortocircuito della permanenza delle nostre opere, dell’estremo valore che attribuiamo ai nostri oggetti culturali immobilizzandoli negli spazi del patrimonio, in opposizione alla scarsa valutazione di certi lavori subalterni di pulizia e cura.



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E con le altre opere?

In generale in questa famiglia di lavori, ho cercato di fare emergere la relazione fra corpo umano e spazio, che nel concetto di solubilità dei nostri corpi-ambienti con le norme umane igienico-sociali di mantenimento, cura e preservazione deflagra in un tipo di opere semi-suicidarie. In mostra piccole porzioni di pavimento sono incorniciate e imbrigliate in delle teglie di alluminio rimandando ai sample dell’edilizia. Alcuni metri quadri di mattonelle diventano l’evocazione di frammenti -a tempo- impiegato per la cura del corpo, per il restauro dei nostri ambienti. Ogni metro quadro conta idealmente le ore impiegate dalle addette alle pulizie quanto dalle artigiane e artiste per produrre, lavare, curare e disfare aprendo ancora una volta il dubbio sull’integrità di un’opera-corpo-paesaggio dal momento in cui viene esposta, curata, conservata e collezionata.

Similmente “Museo” porta traccia di un’azione collettiva sviluppata in relazione al concetto di patrimonio. Nella primavera del 2018 a Villa Croce in occasione della mostra “Vita, morte, miracoli. L’arte della longevità” a cura di Carlo Antonelli e Anna Daneri abbiamo convocato perfomers non professionistə appartenentə al mondo dell’arte per -cancellare- insieme l’intera superficie parietale delle sale espositive. Avevamo a disposizione tre giorni, due sessioni giornaliere da tre ore l’una di lavoro, un’installazione di gomme da cancellare, alcuni viveri e una traccia sonora prodotta per l’occasione dagli amici di Cashmere Radio di Berlino per concentrarci nel gesto ripetitivo richiesto.

Il museo di Villa croce di Genova alla prima proposta espositiva con la nuova curatela, stava allora attraversando un momento di instabilità e conflitto con le istituzioni cittadine che l’ha costretto poi a perdere progettualità e supporto curatoriale a causa del disaccordo istituzionale.

Così realizzare un peeling come gesto di cura epidermica e simbolica della stratificazione storica che si sedimenta all’interno degli spazi museali, mi sembrava un rituale mimetico delle dinamiche del mondo dell’arte, un buon auspicio diventato poi ultimo saluto alla presenza di un museo attivo e critico nel dibattito del contemporaneo.

Per la mostra a Palazzo Luccoli abbiamo realizzato con le maestre del vetro di El Cocal Glass Studio di Murano, delle urne in vetro soffiato dalla forma organica che rievocano strumenti antichi per contenere i resti raccolti dopo quell’azione di cancellazione. I trucioli verdi delle gomme che soggiornavano sulle pareti del museo come una pittura muraria o una polvere del tempo, sono stati asportati e ripuliti dalle pareti come vecchia pelle di un’istituzione museale. Anche qui corpo e architettura si legano insieme in una dimensione dialettica di cura / incuria.

Cosa richiede la dimensione spaziale?

Lo spazio è vivo e richiede una nostra presa di responsabilità e di sempre consapevole ri-attribuzione di senso.

“Santuario”, l’ultimo lavoro presentato in mostra espone tre monili fotografici che contengono dettagli di gelatine d’acqua marina e alghe al microscopio provenienti dall’universo del progetto Big Babol che come già detto si era articolato come studio dell’inconscio dell’ambiente veneziano tramite una psicoterapia alla laguna. Una mappatura dei suoi residui psichici era stata progettata tramite prelievi di acque che avevo trasformato in scultura per poi offrirle parzialmente al pubblico in forma di gelatine edibili in un convivio critico di urbanofagia. A seguito di queste esperienze si sono gelificate altre acque e colture biologiche tra cui quelle del Santuario dei Cetacei in Liguria che hanno dato vita a nuovi ecosistemi scultorei. Alla fine dei vari percorsi di studio sulle acque sono stati documentati al microscopio i resti delle sculture all’interno delle quali l’acqua era evaporata lasciando così solo residui vegetali, piccole muffe e materiale gelificante rinsecchito.

I documenti di questi resti danno vita a nuovi paesaggi sul corpo dell’acqua e diventano nuova base su cui rincominciare ancora quella ricerca di elementi psichici di un terreno multi-specifico.

In che modo queste tre opere possono rientrare nel processo di fruizione del visitatore?

Ognuna di queste opere ha una dedica sottintesa. Il lavoro di sapone è dedicato alle lavoratrici della cura e dell’igiene (e dell’arte!) come ai nostri spazi e corpi che abbandoniamo o iper-curiamo nella generale disperazione di deperire. Le urne si fanno contenitore di gesti di infanzia nei primi tempi in cui iniziamo a collezionare, atti che poi si manifestano in tutti i nostri beni e spazi valoriali dell’età adulta nella necessità e terapeutico o patologico tentativo di controllare piccole porzioni di materia.

Infine i paesaggi organici al microscopio sono dedicati alle vite del mondo che hanno lasciato residui invisibili di se’ e all’acqua come vettore di esperienza. Quindi il concetto di fruizione è messo all’angolo, non sarei per una ricezione comune o a scala solo umana del lavoro e neanche per un’unica forma o documento di prova dell’opera che cambia invece sempre faccia e non costituisce mai la primaria essenza. Mi interessa l’emersione in un dato momento, di una tensione verso qualcuno o qualcosa che spero la intercetti e la usi a proprio consumo e piacimento. Più che la fruizione mi interessano i compagni di lavoro, i protagonisti e le intestazioni nascoste sotto le opere. Quel qualcuno è già parte dei lavori e può capitare come pubblico eventualmente che si rispecchi in una familiarità attraversando quelle storie.

Spesso ipotizzo una vita a se’ stante degli oggetti, al di là di noi, ma anche ipotetiche figure che ci possano sostituire nella fruizione. Mi chiedo spesso se l’umanità dovesse scomparire che fine farebbero le opere d’arte e se qualcuno ne potrebbe comunque beneficiare e in che modo.

Che operazione compi sulle tre opere rispetto al pubblico?

Le tre opere giocano su un’idea di mittente privilegiato che beneficia di sistemi di significato insieme a un pubblico casuale, sulla possibilità di avere un solo destinatario a cui è dedicata l’opera o ancora su come avere un’opera impenetrabile ma solo rievocabile attraverso dei ricordi. James Hillman sollecita in “L’anima del mondo e il pensiero del cuore”una conversazione intima e duratura con la materia e insegna che il mondo è animato e che una poltrona può avere una realtà psichica. Questo lo considero un buon proposito per rivolgersi anche a coloro che abbiamo tentato di addomesticare come ai nostri stessi oggetti e ambienti come fruitori per comprenderne ancora il funzionamento e le distanze che intercorrono fra noi e le cose, quanto le possibilità di direzionare ad esse messaggi poetici in attesa di imparare a leggerne le risposte.

Nel 2020 con la conclusione del tuo percorso accademico, presenti un elaborato scientifico intitolato Fake it until you make it, arrivando a teorizzare un’ipotesi di “terapia ambientale”. Come nasce questa ricerca e quali sono i risultati che hai ottenuto?

“Fake it until you make it” insiste sulle intersezioni fra progetto dell’arte e azione del prendersi cura.

Attraverso diversi saggi e una dozzina di interviste l’intero studio si fa luogo di critica istituzionale fra spazi espositivi e spazi clinici. Il lavoro è guidato, da una parte, dal desiderio di caricare la parola arte di un significato quasi soprannaturale per la creazione di immaginari non sedativi, e dall’altra, dal sentimento di perdita all’interno di un sistema dell’arte (e clinico) fatto di oggetti e non soggetti che assumono talvolta le sembianze di relitti votati solo al consumo.

Che tipo di approfondimento hai pensato per la tesi?

Di per sé la tesi è stato uno strumento di approfondimento per consolidare a livello teorico il lavoro che sto portando avanti da qualche anno, osservando i moti di cura sani e non, all’interno di società ed ambienti che soffrono simbolicamente di diversi stati epidemici.

Quando faccio riferimento all’ambiente in questo studio, lo racconto vivo di forze plurime potenzialmente autonome dalle nostre decisioni e dai nostri calendari e perimetri, non un contenitore o uno sfondo di nostra proprietà, sia che se ne noti la soggettività o meno. Ho provato a proporre un superamento di quel rapporto caritatevole nei confronti di un ambiente distrutto che necessita dopo essere stato da noi rovinato anche del nostro rammendo come con i luoghi colonizzati.In questa ipotesi diterapia ambientale” cerco di evitare di stare in quel senso di potenziale onnipotenza in cui come esseri umanə tendiamo a porci prima in una dinamica distruttiva e poi riabilitativa. Quindi il terapeutico qui ipotizzato e discusso, si fa proposta di pratica artistica come creazione di dispositivi limbici, cerchi sacri che entrino in relazione con l’ambiente per creare -gruppi terapeutici- di senso e ambienti di scoperta senza un fine salvifico che distingua il normale dal sano, dal patologico.La prospettiva richiamata è quella di un’arte diffusa che entri ed esca dagli spazi istituzionali per ridefinire il proprio ruolo considerando diversi ecosistemi. Oltre ai luoghi da infestare, vi sono le storie da cui farsi percorrere al fine di integrare racconti alternativi che non permangano nelle mono-narrazioni che i musei hanno selezionato e promosso come unica storia, valore e patrimonio da conservare.

A che conclusioni arrivi nelle pagine finali?

L’ultimo capitolo in cui il concetto di “terapia ambientale” è introdotto, emerge dopo un lungo studio degli spazi clinici ed espositivi dell’arte, dell’estrema neutralità delle identità degli spazi e degli avventori/ pazienti. E’ stata analizzata l’ideologia del “white cube” parallelamente alla storia della nascita del museo associata alla “nascita della clinica”. Dopo aver costruito un “cerchio” di conversazioni con diverse autrici e autori che si muovono in uno spazio terapeutico nel senso ampio sopra descritto, ho provato a mettere a contrasto e a sistema un potenziale dell’arte che discuta una iperproduzione oggettificante. Alcune traiettorie appartenenti alla pedagogia, alle pratiche di sé, alle sovversioni femministe e di una interdipendenza ambientale provano a suggerire questa sfida politica ed estetica che chiamo appunto “terapia ambientale”.

Attraverso un metodo olistico, ho cercato di ripensare alcuni modi di fare arte e produrre cultura. Forse necessitiamo di diverse fenomenologie per riposizionare le varie dominazioni così da non essere subito inglobati come sponsor di egemonie politiche con cui non si trova accordo.

Come è intesa la terapia?

La terapia qui intesa è una macchina delle domande, per interrogarci su che cosa sia un ambiente, come fare a muoversi dentro di esso, come creare ambienti dentro ad altri ambienti e come questi possano essere resi comodi o scomodi per altrə da noi. L’opera, la mostra, il testo, il film, i festival sono tutti dispositivi ambientali che portano con un avvicinamento ad altri ecosistemi mentali, a ripensarsi nel mondo rispetto alle proprie usanze e credenze così da avere modo di immaginare ancora nuovi modi di convivenza con la diversità. L’ambientale terapeutico, espresso in questa tesi di ricerca non è una teoria medica-artistica ma un rinnovato tentativo di affiancarsi agli usi dei nostri spazi e strumenti attraverso delle opere che permettano ad un quadrato che incontra una sfera, di comprendere che non esiste un unico mondo di quadrati in un sistema di interrelazione.


LETTERA APERTA PER PENSIERI SOLITARI
di Irene Sofia Comi


N.d.A.: questo testo è una scrittura soggettiva plurale, frutto di una pratica di ascolto e dialogo condiviso, in tempi e modi diversi, insieme a diverse soggettività – dell’arte e non – che preferiscono rimanere anonime ma che rappresentano, nell’interpretazione del soggetto scrivente, una certa quantità rappresentativa per la collettività. Questo contributo nasce in risposta a una precisa riflessione alla base del concept della mostra “paradise is exactly like where you are right now only much much better”, una riflessione che è stata anche la base dell’invito a interventi curatoriali altri: interpellare i concetti stessi di mostra e curatela, prendendo spunto da una domanda fondamentale – che senso ha fare una mostra nel 2022 partendo dal panorama indipendente – per aprire spazi di discorso critici.

Cari Pensieri Solitari,

Più facile a dirsi che a farsi. Una lista di domande che ci si pone nel quotidiano non è più tanto semplice quando deve essere messa su carta sotto forma di problematicità da condividere, pur essendo a conoscenza del suo potenziale condivisibile. Com’è difficile uscire dallo spettro dei pensieri in maniera corretta, apartitica, soave ma incisiva, dimostrando il proprio guizzo, la propria originalità, la propria cultura, la propria posizione senza per questo apparire scomodi o essere mal compresi. Potremmo andare avanti per ore, nel mondo dei pensieri, ed è lì, in tale spettro, che vive la verità immediata, lì dove vige il fuor di giudizio. Qui, nel mondo della collettività, nella tanto decantata socialità e condivisione del mondo dell’arte, i pensieri puri e poco mediati diventano un territorio controverso, prima verbale e poi relazionale. Non fraintendeteci. Sappiamo bene che nel mondo dell’arte le affermazioni, le politiche, i credo tranchant da opening vanno bene, purché rispettino però questa sola condizione: che siano ben farciti di cinismo.
Ma noi no, non ci arrendiamo, e ci proviamo. A costo di scendere a qualche compromesso, a costo di mantenerci anonimi. Nel dubbio però manteniamoci plurali maschili, così aumentano le speranze d’avere la meglio: l’approvazione è assicurata, le competenze meno discusse, o per lo meno non sulla base dei nostri aspetti esteriori, il rispetto di genere aiuta, sembra aiuti pure in questo settore che si osanna tanto avanzato. Per che cosa aiuti poi è difficile a dirsi, siamo in un sistema fatto d’un illusione tanto radicata che si convince di muoversi contro la tendenza neoliberista quando non è altro che una delle tante punte di questo iceberg, l’apoteosi della disparità di classe. E forse anche tra le peggiori, perché poco trasparente, opaca per dirla con i media studies, e intrisa di snobismo tossico. Uno snobismo tossico che rischia d’esser camuffato, si nutre di parole e ideologie, ma poi ci domandiamo se all’atto pratico, nei gesti quotidiani e nelle conversazioni ordinarie, si perda o meno questa grinta come una goccia nel mare. In questi anni le generazioni più giovani spingono per un cambiamento sistemico. Favoloso. E come si realizza tale cambiamento? In un sistema che andrebbe raso al suolo e ricostruito per poter germogliare di nuovo sano, è possibile agire senza contestare il sistema dominante e, pur criticandolo, aspirare a farne parte? O per farlo è necessario estraniarsi e rifiutare quel sistema che per primo rifiuta? O sarà sufficiente chiudersi nella propria bolla di interesse, reputando una noia la mediazione disinteressata di qualsivoglia tipo? Come si esce da un sistema dominante? Ci viene in mente bell hooks quando scrive che il femminismo si sarebbe dovuto raccontare e spiegare suonando i citofoni di casa in casa. Ecco, per il sistema dell’arte e per l’arte stessa ce lo immaginiamo anche noi. Se pure bell hooks ammette di averlo pensato spesso ma di non averlo mai fatto, noi di cosa ci recriminiamo? Chi non ama i compromessi si sa, nell’arte non ci rimane facilmente (fatte salve le eccezioni che confermano la regola). Si dedica forse e invece all’attivismo più puro, alla maniera di Carla Lonzi tanto per dirne una. Alle volte ci chiediamo quanto sottolineare una pratica della cura nello statement curatoriale stesso sia un tema cruciale e da problematizzare: che venga oggi capitalizzata anche la cura come tratto di branding distintivo? Ma non dovrebbe essere una caratteristica qualitativa dell’essere umano, applicata ad ogni ambito della propria vita e manifesta nella magia degli incontri affettuosi e dell’altrui conoscenza? E quindi perché distinguersi nel mondo del lavoro autoproclamandosi tali? E verso chi e in quali contesti ci si dimostra “curanti”? A volte ci domandiamo se il massimo atto del prendersi “cura” d’altri non equivalga piuttosto al gesto di fare il pane tutte le mattine o del fare volontariato aiutando chi ha bisogno. Non sono queste due le attività collettive, socialmente attive e inclusive per eccellenza?
Ma ora non perdiamoci, il paroliere dell’immaginazione prenderà il tuo treno della felicità un altro giorno. Ora siamo qui per una ragione!

E chi siamo noi? Vi starete domandando. E noi vi risponderemo che in fondo non è tanto importante, che questa curiosità può rimanere sospesa. Alla soggettività che si dissolve, qui, subentra il senso. Il senso non è ideologia, è intriso di un significato più autentico.

In un sistema sclerotizzato che ci vuole protagonisti, e che ci rende tali anche quando perpetuiamo missioni umanitarie di collettività, nascondendosi dietro a grandi parole, necessarie per accreditarsi ma che celano spesso poca sostanza, le domande da porsi rimangono tante. Dove c’è autoaffermazione e dove c’è l’adesione a un canone? Pensiamo all’esperienza autentica e indipendente del critico e curatore Gene Swenson, riportata da una curatrice che specifica, con un’onestà e una consapevolezza ammirevoli, che nella sua pratica non è effettivamente stata influenzata dal curatore, semplicemente non mette in atto questo modus operandi che tanto la affascina e vuole trasmettere, ma vorrebbe averne il coraggio. “Chissà, magari in futuro”.

Questa lettera aperta è solo un incipit di altre e tante corrispondenze a cui potete partecipare e unirvi anche voi. Se questa confessione è naïf vi suggeriamo alla pagina 2 del Dizionario-per-una-buona-sopravvivenza-nel-mondo-dell’arte anche il termine “didascalico”, di solito funziona sempre! Se invece in voi scaturisce un qualcosa, se avete bisogno di condividere… sapete come trovarci.

Con affetto, buon sabato


Da SPAZIO PROFONDO – Fondamenti per una coesistenza felice di Simone Scardino


Tempo profondo è un concetto che fa riferimento alla scoperta di un passato storico e geologico molto più vasto di quanto invece si pensasse.

L’unica spiegazione logica che motiva il presente e gli oggetti che abitano il mondo è retta dall’idea di un tempo profondo.

In passato si pensava che l’età di Terra prima di ospitare la specie umana fosse relativa a poche migliaia di anni.

“Guardando tanto lontano nell’abisso del tempo, La mente è presa dalle vertigini”. (John Playfair – 1788)

Scoprire invece che si trattava di un errore dato che l’età di Terra è infinitamente più ampia rispetto a qualsiasi unità di tempo antropizzato, costituisce un meraviglioso atto rivoluzionario.

Questo pensiero è infinitamente e finemente progredito, per quanto moderno.

Oggi in che modo motiviamo le forme esistenti, gli oggetti che ci circondano o le relazioni che intercorrono tra le persone. Sarebbe possibile tracciare una linea parallela alla scoperta del tempo profondo nel nostro presente?

Per capire che tutto ciò che ci circonda è fittamente collegato attraverso eventi e fenomeni, cause ed effetti, così come è stato per il tempo, avremo bisogno del concetto di spazio profondo.

Il riscaldamento climatico, l’inquinamento dovuto alle polveri sottili nell’aria, le radiazioni nucleari, l’acidificazione degli oceani, la desertificazione di terre un tempo fertili, l’effetto della deforestazione che fa spazio ad enormi monoculture che annientano la biodiversità sono tutti fenomeni interconnessi da un unico comun denominatore: l’attività antropica.

Attraverso lo spazio profondo è possibile iniziare un nuovo percorso alla comprensione di ciò che ci circonda.

Lo spazio profondo è la realtà nella quale siamo immersi, ed è più vasto di quanto possiamo vedere con gli strumenti biologici (sensi) o apparati tecnologici (dispositivi) attualmente in possesso (non mi aspetto che potremo mai ambire a tanto).

E conchis omnia” (tutto dalle conchiglie) scriveva

Erasmus Darwin, oggi dove si potrebbe rintracciare l’origine dei fenomeni che hanno dato spazio e luogo a tutto ciò che ci circonda?


Questo testo, scritto da Simone Scardino (1995, Venaria Reale; vive e lavora a Torino), accompagna l’opera video Greensaver (Atto II) (2020-ongoing), presentata dal collettivo curatoriale Pierre Dupont nell’ambito della mostra collettiva paradise is exactly like where you are right now only much, much better.
Il video è parte di un progetto più ampio presentato nel 2020 in forma documentativa presso Progetto Diogene, Torino.


Come tu mi vuoi
di Treti Galaxie

All’inizio ero convinto fosse un buffone, ma appena arrivò la notifica del primo bonifico decisi di andare a farmi tatuare il Suo nome sulla fronte. Sulla linea delle sopracciglia, per essere precisi. Così il berretto con la scritta “I BELIEVE IN” non l’avrebbe coperto. Se incrociandomi per strada mi fissavi negli occhi per più di tre secondi ti raccontavo tutta la storia. Come sto facendo con te adesso.

In pratica correva voce che c’era una mostra con questa scultura che se ci strofinavi sopra le bollette, queste si pagavano da sole. Figurati. Assurdo. Una buffonata, dirai tu. Proprio come pensavo io all’inizio. Dirai, ci sarà una qualche microcamera che ti filma mentre ti comporti da scemo, mentre sei lì a strofinare bollette. Una trovata messa su a questo scopo. La pensavo uguale. E invece. Dirai, mai sentita una scemata del genere, le bollette che si autopagano. Dirai, ma poi come funziona? Quale sarebbe il meccanismo? Dirai, e il motivo? Fattostà. Io di questo tatuaggio che ho in faccia ne vado fiero.

Era un po’ che ne sentivo parlare e verso l’ultimo giorno di mostra mi sono deciso. Mi sono detto, perché no? Vediamo. Ovviamente occhiali da sole e felpa con il cappuccio, nel caso ci fosse davvero la microcamera per riprendermi. Faccio per andare, e la coda per entrare alla mostra iniziava già dall’uscita della metro, anzi, già da prima dei tornelli dentro alla metro. C’era già qualche persona con il berretto e il tatuaggio in faccia, ma erano poche. Dopo un’ora di coda, qualche eretico aveva messo in giro la voce che la scultura si fosse esaurita. Che aveva smesso di pagare. In quegli anni non li lapidavamo ancora, ci limitavamo a non ascoltarli. Poi si diffuse la voce di quelli che hanno visto chi usciva dalla mostra, dello sguardo con cui scrutavano il cielo, di come controllavano il cellulare, di come piangevano, e di come provavano a rientrare ma venivano spinti indietro, sempre più indietro, verso il fondo della coda. A quel punto il loro racconto risaliva la fila, di bocca in bocca, mischiandosi e scontrandosi con le versioni apocrife che provenivano dalla direzione opposta, dalla fine della coda, da dove stavo io.

Dopo sei ore finalmente riuscii a entrare. Non saprei descriverti com’era fatta la scultura, perché in realtà nella penombra nemmeno riuscii a vederla bene. Presi dalla tasca la bolletta del gas e la passai veloce, la sfregai distrattamente su quella statua. Mi guardai intorno, cercando di individuare una qualche microcamera nascosta, ma invece, con mia sorpresa, vidi solo un mucchio di gente nuda, in ginocchio, che pregava. Mi voltai, imbarazzato, e mentre stavo per alzare gli occhi sulla scultura, dal telefono arrivò la prima notifica. Al sentire la suoneria, la folla di persone nude smise di pregare, e in silenzio fregò le mani, una sola volta, contemporaneamente, all’unisono, e poi mi fissò. Capii che dovevo uscire. Una volta fuori aprii la notifica, e guardando il telefono piansi, e chi mi vide raccontò il mio piangere, e la mia storia, come le altre, risalì lungo la coda fino al fondo, dove stavano altre centinaia di persone titubanti.

Altro che il Netflix della cultura. Questo era l’Amazon della cultura, e tutti quanti eravamo dei Jeff Bezos.

Non so descriverti cosa si provi a entrare negli Uffizi con una motosega, non perché io non l’abbia fatto, ma perché quando lo feci non ero in me. Subito dopo il bonifico, subito dopo il tatuaggio, ho iniziato a non sopportare l’idea, o anche solo il pensiero o la sensazione, che un’opera d’arte non potesse generare istantaneamente denaro. Per questo me ne andavo in giro con una motosega. Per fare giustizia. Fare pulizia.

Entrare agli Uffizi con uno strumento così ingombrante e rumoroso non è un problema, soprattutto se tutte le persone che lavorano al museo ti salutano sollevando leggermente il cappello a mostrarti il Suo nome tatuato sulle sopracciglia. Mi fermai davanti alla prima opera che secondo il mio sentire poteva generare denaro. Il mio sentire si basava sul titolo dell’opera. L’opera si chiamava “Tondo Doni”. Vediamo se dice la verità, vediamo se tiene fede alle sue promesse, vediamo se ci dona davvero qualcosa. Ruppi il vetro protettivo e accesi la motosega. Presi una bolletta e la sfregai sulla sua superficie. Attesi qualche istante. Nulla. Ancora qualche istante. Niente. Provai di nuovo passandoci sopra la bolletta. Non arrivò alcuna notifica. Niente Doni.

Non riuscirò mai a capire come questi abbiano potuto decidere di tenersi tra i piedi per cinque secoli un’opera d’arte senza che questa producesse del denaro. È inconcepibile.

Fa un gran caldo, e il caldo mi fa divagare. Tu non hai caldo? Torniamo a parlare di cose serie, di opere d’arte vere, torniamo alla mostra di questo grand’uomo – o era una donna? – il cui nome ho gloriosamente tatuato in fronte. Torniamo alla storia della cultura con la € maiuscola.

Fu la prima volta che un’opera d’arte contemporanea fu acquistata per una campagna elettorale. E fu la prima volta che la presenza di un’opera d’arte contemporanea funse da intero programma per una campagna elettorale. E fu la prima volta che una campagna elettorale girò per tutto il pianeta. E fu anche la prima volta che vari gruppi di persone, a livello globale, chiesero espressamente che un’opera d’arte contemporanea venisse messa in una piazza pubblica. E fu anche la prima volta che tutti i paesi del mondo iniziarono una guerra per decidere in quale piazza pubblica del globo dovesse venire installata una scultura. E fu anche la prima volta che tutti i soldi del mondo smisero di avere valore. Anzi, fu sicuramente la prima volta che tutti i soldi del mondo smisero di avere senso. Però non fu la prima volta che una scultura venne distrutta.

A distanza di anni, non saprei dirti come mai a nessuno venne in mente di chiedere cosa ne pensasse dell’intera faccenda alla persona il cui nome avevamo ormai tutti quanti stampato sulla fronte.

Finito il racconto, rimaniamo in silenzio a guardarci. Fa caldo. Lui si toglie il berretto, quello con la scritta I BELIEVE IN. Prende un fazzoletto di carta e se lo passa sulla fronte per asciugarsi il sudore. Dal fazzoletto emerge all’istante un disegno. È splendido. Non saprei descriverlo nel dettaglio, perché mi avvicino per poterlo osservare meglio ma lui si ritrae, tira subito fuori dalla tasca il cellulare, e non vedendo comparire alcuna notifica, si soffia il naso nel fazzoletto, lo accartoccia e lo butta distrattamente a terra, poi torna a guardarmi.


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paradise is exactly like where you are right now only much, much better – Exhibition view, Palazzo Franzone Spinola di Luccoli, Genova, 2022 – Courtesy Crates