Off Topic: Fabio Ranzolin

Off Topic sviluppa una conversazione che si focalizza su un’unica tematica, tralasciando le opere o le mostre. Lo scopo è quello di raccontare non solo un*artista, ma anche l’apparato teorico e l’immaginario che soggiace alla sua produzione.
La conversazione con Fabio Ranzolin (Vicenza, 1993), a differenza delle altre, è stata concepita come uno scambio di messaggi scritti, partendo dal concetto di Capitale Umano. Infatti, la sua ricerca artistica si sviluppa dalla relazione che intercorre tra genere e capitale, tra corpi politici e merce.

FR: Io concepisco il mondo sempre in una logica evoluzionistica, quando cerco di pensare a cosa significa dalla mia prospettiva il concetto di capitale umano mi rendo conto di incontrare delle difficoltà, come quando si utilizza il concetto di capitale naturale – premettendo che non ho ancora trovato pace con il termine “natura-naturale”. Capitale umano non ha nessun tipo di significato se non essere la sfumatura più riuscita di quest’era cosiddetta Capitolocene. Attraverso il conteggio di questo sistema di valori, o di quelli che vengono reputati tali, si può stipulare una polizza assicurativa che garantisce una copertura economica affine al proprio status fisico, sociale e potenziale. Considerare la vita degli/delle esseri viventi in maniera capitalizzata realizza una inevitabile gerarchia discriminatoria.

GG: Tanto al “naturale” quanto all’umano vengono attribuiti valori in base all’utilizzo; per esempio, con la scoperta delle Americhe e l’introduzione di ingenti quantità di oro e argento si verificò in Europa uno sconvolgimento degli equilibri economici. L’aumento di queste materie prime “svalutò” i principali detentori europei. Allo stesso modo, l’umano prende o perde valore in base al contesto di riferimento e, come per le merci, alla disponibilità di mercato. Come racconta Naomi Klein in No Logo, lo sviluppo globale del marketing negli anni Novanta ha contribuito a sdoganare la diversità come valore intrinseco della nuova era, coinvolgendo diverse soggettività e promettendo loro un miglioramento della vita. Le multinazionali non vendevano più prodotti ma, piuttosto, uno stile di vita includente e acquistabile da tutti i mercati contemporaneamente. Oliviero Toscani e Benetton sono tra i primi propulsori di questa tendenza. Cosa non torna? La crisi economica e gli sconvolgimenti storici hanno contribuito a mantenere il divario sociale, anzi lo hanno rafforzato: i prodotti venivano venduti su scala globale; lo stile di vita veniva omologato, ma non tutti potevano aspirare a raggiungerlo. Secondo il rapporto del 2019 della Oxfam il calo della povertà ha subito un arresto dopo il 2015, mentre la ricchezza di aziende e privati è aumentata grazie anche alle poche misure adottate dai singoli stati. In chiave artistica, un esempio è stato rappresentato da Teresa Margolles durante la sua personale del 2018 al PAC Ya Basta Hijos De Puta dove l’artista ha raccontato come le vite di donne cis e trans*, e delle persone povere, abbiano un valore esiguo rispetto ai capitali sviluppati dai cartelli della droga. Questo è un esempio limite di come le marginalità siano svantaggiate rispetto alla controparte privilegiata e dominante e di come siano impossibilitate materialmente a cambiare la propria condizione. Forse proprio a causa del mancato incremento del loro capitale umano.

FR: Sono molto felice che venga ricordata la struggente personale di Margolles, artista che amo profondamente e che mi commuove. Nelle tue considerazioni è inevitabile prendere come riferimento le istanze femministe. Ogni soggetto marcato inserito in uno specifico contesto spaziale e storico incorre in una serie di risorse e discriminazioni. Le lezioni di Davis e hooks, ad esempio, sono esemplari in questo: le persone facenti parte di gruppi oppressi, subordinati e vulnerabili, sono quelle che dovranno s-vendere la propria forza-lavoro e pagheranno maggiormente la propria libertà o quella a loro concessa. I discorsi sul genere permettono di porre attenzione alle soggettività di ogni individuo umano e questo ci concede di osservare la tossicità del sistema eteropatriarcale capitalista. Tuttavia, c’è anche un rovescio della medaglia: questa logica (legittima) basata sulla soggettivazione, sull’identità, non fa altro che perpetuare il neoliberismo. Nancy Fraser mette in crisi lo stesso femminismo definendolo “ancella del capitalismo”. La seconda ondata ha rivendicato la liberazione della Donna e, in un successivo momento, delle altre minoranze, ricamandosi nella morsa del mercato liberale, poiché incoraggia l’individualismo, la necessità della carriera, l’autodeterminazione e l’indipendenza tout court. In un mercato del lavoro ironicamente “impreparato” e discriminatorio le paghe non sono paritarie e il lavoro di cura è ancora ascritto alle persone femminili/zzate, spesso in maniera gratuita. Se le persone ricche possono affidare la gestione famigliare, il babysitting, la cura domestica e la gestazione ad altri, ancora una volta sono le classi subordinate a subire di più, proprio quella fascia di persone – guarda caso – che ne avrebbero necessità. Il rafforzamento delle politiche sull’identità permette al neoliberismo di creare poi il pinkwashing, genderwashing e socialwashing che dicevi. È un territorio ambiguo come quando il sistema della moda, per non citare quello dell’arte, inserisce nel marketing aziendale corpi di persone non conformi alla norma eterosessuale, bianca, benestante e abile. Sono sempre favorevole al riconoscimento, all’occupare lo spazio del privilegio, e penso che serva e abbia una sua dignità politica; ma poi, in fondo, chi acquista opere e chi va a vedere le mostre? È una critica che scotta anche me in primo luogo, tuttavia credo che sia opportuno rifletterci. Viviamo in una società che non include ma innesta la paura di essere esclus*. Pensiamo di vivere in un mondo in cui tutto è possibile, per chiunque, per noi, per me, quando poi le risorse (che scarseggiano) non sono equamente distribuite e la fame di fama ci convince a desideri indotti, per lo più normativi e borghesi. Quale capitale “umano”, quindi?



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GG: Nelle mie prime esperienze nel mondo dell’arte mi è stato detto: “È più semplice stare nel mondo dell’arte se si ha il doppio cognome” e “Se non sei già ricco, è inutile provare ad accedere all’arte”. In queste due frasi si evince come il privilegio e l’immobilismo sociale siano fortemente legati al sistema stesso. Se vediamo casi come quello di Marina Abramović, in una certa misura è possibile un cambio di classe. Ma è possibile che tutti abbiano lo stesso accesso a gallerie, curat* e istituzioni? Il motto del duro lavoro, paga? Mi sono accorto che è davvero costoso intraprendere la carriera artistica: bisogna viaggiare, presenziare a ogni evento, sottostare a lavori poco o per niente retribuiti per molto tempo, oppure avere relazioni con personaggi interni al sistema, non per forza strumentali. Sono queste le mosse utili per incrementare il proprio capitale umano nell’arte? Se davvero questo concetto è legato al profitto e alla possibilità di crearlo e di aumentarlo, alcune soggettività sono completamente escluse. Sono anni che cerco di lavorare con artist* della comunità trans* ma spesso il loro processo creativo è normalizzato e sommesso al sistema. Ancora una volta: ci sono sistemi che appaiono inclusivi, pieni di buoni propositi, ma sembrano solo réclame. Da quanto tempo si è cominciato a contare le partecipazioni delle donne alle manifestazioni artistiche in onore di un rinnovato politically correct? Perpetuando le solite retoriche: “si dovrebbe puntare alla qualità!”. Come puntare sulla qualità se delle soggettività sono svantaggiate già in partenza?

FR: Mi dispiace per la tua esperienza. Come ho detto sopra: pensare che sia possibile per tutt* è una lusinga (o sudditanza) del neoliberismo. Il “capitalismo artistico” di Gilles Lipovetsky è un sistema che ha bisogno di una serie di credenze per giustificare il suo ordine, per auto-replicarsi, per favorire l’adesione. Inoltre, al pari del mercato di beni di consumo, sfrutta la strategia della competitività e dei paradigmi di domanda e offerta del mercato del lusso. Non mi sento capace di rispondere a tutte le tue domande, posso riferirmi solo alla mia esperienza e sapere situato. D’altronde ho anche io dei privilegi che altre persone non hanno. Partirei a riflettere su questo: la consapevolezza del proprio potere, del proprio spazio e il loro riflesso opposto. Ho il privilegio di poter lavorare, in piccola misura e con grandi sacrifici, nel sistema dell’arte; è probabile che non arriverò mai ai livelli di status e di mercato più elevati di quelli attuali. Tuttavia ho la possibilità di utilizzare il “mio” spazio per essere portavoce di un pensiero critico. Lea Vergine sostiene che l’arte non sia necessaria, “è il superfluo”, ed è proprio in questo che risiede la sua importanza. Non è sicuramente un’idea originale ma dopo quello che ci siamo detti, quanto è sovversiva? L’arte è un linguaggio che ha legittimità di pensiero, concepirla inutile scardina l’esigenza pragmatistica, l’utilitarismo della vita stessa che il Capitale “chiede”. Dobbiamo rifiutarci di occupare il posto dell’alterità dominata e possiamo essere politicamente improduttivi. Allora, riflettendoci, continuare a parlare e a fare quell’arte senza utilità, è un’opportunità: forse il nostro più grande valore umano. Come sostiene Rosi Braidotti, non è necessaria la rivoluzione storicamente intesa, la rivoluzione è un concetto fascista, creiamo invece un discorso sull’arte che sia dissenziente!

A cura di Gianluca Gramolazzi


www.fabioranzolin.com

Instagram: fabioranzolin


Caption

Mi lasci sperare non so cosa, 2019, dettaglio – Spazio ORR, BS – Courtesy Fabio Ranzolin

Champagne taste on a beer budget, 2019 – Spazio ORR, BS – Courtesy Fabio Ranzolin

Paesaggio tra le due guerre, 2018 – Performance, Museo del Novecento, MI – Courtesy Fabio Ranzolin

Put me in a corner and stuff your spur in my ass, 2017, dettaglio – Courtesy Fabio Ranzolin

Persino quando sogni ti ritrovi il Capitale alle costole, 2019 – 4 tende a fili e anelli per uccelli – Courtesy Fabio Ranzolin