Off Topic è una conversazione che si focalizza su un’unica tematica, tralasciando le opere o le mostre. Lo scopo è quello di raccontare non solo un* artista, ma anche l’apparato teorico e l’immaginario che soggiace alla produzione artistica.
L’obiettivo del lavoro di Silvia Morin (Corato, 1988) ha come finalità la costruzione visiva di una mappatura emotiva, fisica e virtuale delle donne del passato e della contemporaneità, protagoniste di esperienze legate a fatti di cronaca, attraverso fotografie e atti performativi. L’artista si identifica con donne che hanno subito ed esercitato violenza nel rapporto con l’altro sesso, studiandone le biografie e mescolando le loro vite, per analizzare quale sia la radice del dolore e della forza che le accomuna. Il dato importante è la loro condizione psicologica prima della morte, per aprire l’immaginario su un ipotetico ritorno. Per questo abbiamo parlato con Silvia di violenza e femminicidio.
Destinata a chi “cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella”, la legge sul delitto d’onore è stata varata in epoca fascista ed è rimasta attiva fino al 1981. La nostra legislazione ha quindi “attenuato” le colpe di certi criminali fino a 40 anni fa.
Non è una realtà così distante dalla quotidianità. Ricordo di un episodio di cronaca nera avvenuto nel mio paese: una donna fu uccisa brutalmente dal marito perché c’era il sospetto di un tradimento. Questo è uno dei primi episodi di violenza a cui mi sono interfacciata in giovane età, rimasto appunto impunito e “giustificato” dalla legge.
È evidente che la nostra società sia fondata su una disparità netta, e che perpetui un meccanismo patriarcale. Come uomo mi è stato detto che con la violenza si risolve ogni cosa. “Se ti picchiano, devi picchiare, e prima che ti sferrino un pugno, sferralo tu”. Tutte queste dinamiche sono introiettate dalla maggioranza.
L’atteggiamento maschilista viene introiettato da ognunǝ sin dall’infanzia. Durante l’adolescenza questi meccanismi si amplificano e si esplicano in comportamenti di branco denigratori nei confronti delle donne etichettate come “facili”. Queste svalutazioni diventano uno stigma sociale da cui è difficile liberarsi.
Come uomo gay non normato, vedo in me e nelle persone vicine come la violenza sia assunta quasi come un dato di fatto, che prima o poi inevitabilmente tuttз subiamo.
Mi ci son voluti anni prima di arrivare a questa consapevolezza. Crescere in provincia comporta molte difficoltà, ad esempio quando esprimevo un pensiero diverso da quello delle mie coetanee mi additavano come diversa e fuori luogo. Quando cresci in un ambiente così, fai fatica a riconoscere la violenza che si nasconde dietro a certe dinamiche sociali totalmente normalizzate: aver paura di uscire la notte, di esporsi al primo appuntamento e del costante giudizio sul comportamento pubblico. Solo staccandomi dal contesto abituale, mi sono resa conto di quanto sia stato difficile crescere come donna in certi ambienti. Nel 2018 ho partecipato al Campo Femminista Politico di Agape, eravamo 60 donne di tutte le età e di queste l’80% ha subito violenza. Le percentuali sono altissime. Mi sono resa conto che è necessario parlarne, confrontarsi e acquisire un atteggiamento di consapevolezza attiva.
Il confronto è uno strumento importantissimo, ma nell’opinione pubblica c’è un’inclinazione a dare più spazio alle solite voci. In occasione della giornata contro la violenza sulle donne la Repubblica ha pubblicato un post in cui, su sfondo monocromo, una scritta recitava “la gelosia non uccide, gli uomini sì”. Subito dopo è stato postato nuovamente, a causa di alcune rimostranze, con la frase “la gelosia non uccide, alcuni uomini sì”. Per una volta che è stato veicolato un messaggio differente, è stato ritrattato subito. Di recente molte testate giornalistiche stanno cercando di raccontare eventi di femminicidio uscendo dal frame narrativo standard, che si basava sullo spostare l’attenzione dalla vittima al carnefice affinché si possa empatizzare con lui e con il suo atto.
La narrazione tossica è uno degli argomenti che vengono portati ai tavoli di Non una di meno, e va combattuta a partire dal linguaggio e dall’espressione. Infatti, uno dei fondamentali di Nudm è “io ti credo, sorella” perché tutto il resto dell’opinione pubblica trova mille motivi per far incolpare la vittima: può essere “come sei vestita” ma anche la tua condotta sociale, o il tuo lavoro. Il giornalismo è lo specchio del pensiero della società, perciò il pensiero è quello. Gli uomini dicono di aver agito per possesso (gelosia), in fondo, per amore. Pensano che il loro ruolo sia quello di proteggere un essere diverso; diverso perché deve essere protetto e custodito dall’uomo. Piano piano le cose stanno cambiando, c’è più attenzione grazie alla lotta di moltз. Infatti, le azioni per il cambiamento partono dalle piccole cose: quando ho dato l’esame di stato, mentre compilavo tutti i fogli per completare la burocrazia, mi sono resa conto che tutti i sostantivi erano declinati al maschile, nonostante nella commissione fossimo quasi tutte donne. Prima di firmare ho sostituito il maschile con il femminile, aggiungendo tutte le “A” mancanti. Le donne vivono, come altre “minoranze”, una situazione di disparità e perciò chi combatte per una di queste situazioni combatte per tutte.
La lotta comune per tutte le minoranze è parte del transfemminismo queer. Si assiste ad atti violenti costantemente, per questo bisogna unirci per scardinare determinate narrative.
C’è anche tanta violenza per quanto riguarda le malattie e i disturbi mentali. Proprio ieri seguivo una conferenza di Cesare Maffei, primario dell’unità di psicologia clinica e psicoterapia al San Raffaele, in cui diceva che l’80% delle donne si ammala di disturbo borderline. Innanzitutto bisogna dire che da un disturbo si guarisce perché “ti disturba” in quel momento. Maffei diceva che le donne sono più soggette a questo disturbo non perché siano biologicamente diverse ma perché vivono da sempre una condizione di disparità: introiettare la violenza porta ad ammalarsi. La nostra cultura crea disturbi e malattie a partire da stigmi sociali: l’isterica, la facile, la traditrice. Nella società si tende a normalizzare la disparità di genere, l’impossibilità della cura delle malattie mentali, il predominio umano sugli animali. Si tende quindi a normalizzare il male, la violenza piuttosto che l’amore e l’uguaglianza. Per questo nel mio lavoro tendo a dar risalto alla vita. Per la copertina di Artribune di luglio 2019 ho realizzato un lavoro su Imane Fadil, una teste per processo Ruby Ter ipoteticamente morta avvelenata a marzo dello stesso anno. Quando è uscito il magazine mi ha scritto il migliore amico della ragazza per ringraziarmi per aver ridato voce a lei come persona, al di fuori della cronaca. Io vorrei attingere da testimonianze reali, partendo ovviamente dalla cronaca ma poi abbandonarla per poter parlare della vita di una persona.
La cronaca si sofferma sull’uomo, sulla sua vita, sulle testimonianze della sua famiglia, dellз colleghз e dellз vicinз. La nuova narrazione che si crea, in linea con le modalità femministe di narrazione, è legata alla vita reale di una donna, conferendo di conseguenza dignità a tutte le altre.
In ogni lavoro tendo a soffermarmi solo sulla donna, cercando di entrare in contatto con lei. Ad esempio, l’opera su Wilma Montesi, oltre il profilo Facebook, è un audio di 10 minuti in cui parlo come se fossi lei, mischiando la mia e la sua vita. Alla fine della registrazione sono svenuta. È stato un momento mistico. Questo avviene perché mi immergo nella vita della donna, fino a confonderla con me. Il processo di conoscenza con la vittima passa attraverso un periodo di sei mesi/un anno di ricerca, grazie al quale produco due fotografie. Per un’opera che ho fatto su Francesca Alinovi, ad esempio, sono stata a Bologna, dove la donna è stata uccisa, e sono riuscita a parlare direttamente con chi l’ha conosciuta a partire dalla galleria Neon, e ho letto tutte le sue pubblicazioni. C’è stato un lavoro diretto sulla conoscenza di lei come critica d’arte e donna. Il mio intento non è creare una narrazione con modalità femministe, perché ho incrociato il femminismo con il mio lavoro. Non sono partita dalle loro teorie per poi sviluppare il mio lavoro: è stato il contrario. Nella mia ricerca più intima e reale non faccio politica. Le mie necessità non nascono da quello, ma inevitabilmente lo sono (o diventano).
A cura di Gianluca Gramolazzi
Instagram: silvia.morin
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A Tiziana – Inkjet print on dibond, 100×70 cm – Courtesy l’artista
Da Comizio, live work, 2018, T-space – Inkjet print on dibond, 50×70 cm – Courtesy l’artista
Ipotesi di ritorno, Imane Fadil – Inkjet print on dibond, 100×70 cm, 2019 – Courtesy l’artista
Rossella Casini, Palmi, aprile 1981, Milano 2018, con amore – Inkjet print on dibond, 100×70 cm, 2018 – Courtesy l’artista