Off Topic è una conversazione che si focalizza su un’unica tematica, tralasciando le opere o le mostre. Lo scopo è quello di raccontare non solo un* artista, ma anche l’apparato teorico e l’immaginario che soggiace alla produzione artistica.
Qualsiasi gesto, immagine o parola raccontano una storia, quella dell’essere umano che li ha prodotti. Daniele Costa (Castelfranco Veneto, 1992) attraverso i suoi film documentari vuole dare spazio a persone che narrano sè stessi e, contemporaneamente, una collettività. Le loro storie individuali si intrecciano con l’ambiente, la tecnologia e la società diventando esempi di resilienza.
L’avanzamento tecnologico in ogni aspetto della nostra vita ha permesso di dare voce a ogni identità; contemporaneamente la globalizzazione ha elevato l’individualismo e creato nuovi tipi di comunità. In questo contesto, l’esposizione del proprio corpo e della propria identità digitale è diventato il perno della vita di molt*. Quali credi siano le modalità di adattamento che si possono mettere in atto?
Apparteniamo alla generazione di inizio anni Novanta e, crescendo, ci siamo ritrovati in un mondo completamente diverso da quello che avevamo conosciuto. Nel corso di questi anni il nostro corpo ha subito una fusione con l’immagine e l’immagine a sua volta è diventata corpo. Nei miei lavori parto sempre dal reale, o da una forma di realtà, tenendo in considerazione il condizionamento dell’immagine – che ha perso il suo statuto classico diventando qualcosa di più invasivo nella vita. Così, non solo l’immagine diventa corpo ma anche il corpo, a sua volta, viene considerato come immagine. In questo contesto, il corpo ha più possibilità di rivelarsi e, attraverso il suo farsi immagine, può far emergere forme diverse. I meccanismi di sopravvivenza o di adattamento individuali sono una modalità, quasi malinconica, di stare a pelo d’acqua e non annegare. Inizialmente il mio modo di adattarmi è stato quello di celarmi nella realtà, e osservare. Poi il mio approccio è cambiato: da mero osservatore, ho cominciato ad accettare il contesto per poi, come si vede nei miei lavori, far emergere il soggetto. Per questo prima parlavo di “stare a galla”. La forma di sopravvivenza è accettare e rendersi conto di qual è il proprio reale e di come si vive e convive con questo. Un po’ come diceva Nietzsche sulla morte di Dio: l’unica cosa che ti rimane è una qualsivoglia forma di realtà o reale con cui sei destinato a confrontarti. Se tutti i tuoi valori, anche più alti, muoiono, l’unica cosa che ti rimane è la realtà nella quale sei.
Certe volte la realtà è qualcosa di molto particellato ma allo stesso tempo rappresenta la base di analisi del contesto. In certe situazione, per certe identità, la realtà assume dei caratteri negativi perché ha introiettato stereotipi e categorizzazioni legati a retaggi culturali coloniali, sessisti e classisti. Quindi, per queste soggettività la realtà presentata dalla maggior parte dei media non è qualcosa che permette il libero sviluppo dell’io. Nel contesto globalizzato di cui parlavamo prima sappiamo che si sono moltiplicate le “safe zone” e si sono strutturati ambienti inclusivi e di supporto.
Queste soggettività sono una forma di anticorpo, una modalità di riflettersi nel reale. Ogni individuo si riflette su un reale connotato, che diventa in ogni caso uno punto di partenza per una riflessione sulle modalità di sopravvivenza e adattamento. In certi casi diventa anche il punto di ancoraggio, grazie al quale si attiva una spinta. Se togli il luogo specifico al soggetto, questo cade, non si rivede più e deve strutturare nuove modalità di resilienza. L’ambiente è quindi indispensabile perché senza questo non ci sarebbe la cura; senza il reale non ci sarebbe il soggetto. In questo contesto, l’individuo e il paesaggio confinano, come se fossero i lati di una stessa superficie, senza increspature e discontinuità.
L’ambiente e il soggetto sono una cosa unica, in questa prospettiva. Le spinte al cambiamento però non arrivano solo dall’esterno, quindi non è solo il contesto che modifica l’individuo ma è anche quest’ultimo che modifica il reale circostante. Uno dei mezzi più semplici forse è il racconto, come il soggetto crea un’autonarrazione.
Ti posso portare gli esempi dei miei lavori: se a mio padre togli la possibilità di narrarsi in un determinato territorio, non gli rimane altro; se non ci fosse stato Lago, Doriano non avrebbe attivato quei meccanismi che gli hanno fatto prendere le distanze dal luogo. In questo caso lui non narra se stesso e l’ambiente, ma arriva a performare il contesto per riflettercisi. Il contesto diventa una forma di palcoscenico, si astrae e diventa altro dalla realtà. Quei 22 cm di palco che gli permettono di stare sopra l’acqua e non affogare.
Su questo aspetto si può trovare molta letteratura. Ad esempio, in Big Fish di Tim Burton l’autonarrazione plasma sia l’ambiente sia il tempo, nell’ottica di ricercare la sopravvivenza.
Fare video per me è la volontà di svelare il tempo. Il montaggio crea una narrazione reale perché i frame conservano un tempo definito e irripetibile. Tutte le storie che ho raccontato hanno questo aspetto, hanno più o meno gli stessi colori e si specchiano in quello che è intorno a loro. Io le ho osservate e attraverso l’inquadratura ho cercato di farle diventare altro, di andare a scavare nell’identità. L’aspetto che ritengo interessante dell’auto-narrazione è che assume la forma di una costruzione di un reale rassicurante, come se ci si cucisse addosso qualcosa che possa entrare a pennello. Questo è ciò che faccio anche io: cucio una struttura all’interno di me, che mi sorregge e non innesca meccanismi di difesa. Così, mi piace cercare nuovi immaginari visivi e creare racconti diversi che si fanno su determinati luoghi, momenti e persone. Sono stato nel quartiere di Porta Palazzo a Torino e per la prima volta in vita mia ho visto che la camera anziché respingere era motivo di avvicinamento. Arrivato lì, un signore, che si stava occupando del montaggio e dello smontaggio dell’area del mercato, mi ha detto: “Visto che hai la camera e fai i film, mi riprendi mentre ti racconto di me.” Io sono rimasto molto sbalordito. Alla fine della serata non mi aveva raccontato molto di lui, se non la sua immagine che si muove nell’ambiente, però mi ha detto di tornare il giorno successivo e di stare attento a non tardare. L’indomani mi sono presentato puntuale. Ad aspettarmi tutti i colleghi del signore che avevo incontrato il giorno prima. Sono stato tutta la notte a riprenderli mentre pulivano la piazza. È stato un momento incredibile. In ogni mio film sono state dette delle cose perché sono emerse naturalmente, mentre la camera riprendeva il paesaggio. Credo che raccontarsi sia una delle modalità per rimanere più autentici.
A cura di Gianluca Gramolazzi
Instagram: danielecosta___
Caption
X, 2020 – Still da video – Courtesy dell’artista
Spazio morto, 2016 – Still da video – Courtesy dell’artista
Dove crollano i condomini, 2020 – Still da video – Courtesy dell’artista
Harmony, 2018 – Still da video – Courtesy dell’artista
Il circuito, 2018 – Still da video – Courtesy dell’artista