In occasione di Epimeteo, mostra realizzata a cura di Giorgia Basili presso Piazza di Pietra Fine Art Gallery a Roma, abbiamo dialogato con l’artista Marco Ercoli (Roma, 1986).
L’esposizione è frutto di un lungo progetto – l’artista ha dipinto incessantemente per più di un anno dando vita a quasi trenta quadri – elaborato site-specific per la galleria che sorge di fronte al colonnato del tempio di Adriano. Ercoli ama la filosofia antica e la tradizione della pittura italiana, e fa confluire queste sue passioni nella poetica e nella tecnica artistica utilizzata (pittura a olio su tela caratterizzata da un’accentuata cura del dettaglio), nonché nel suo stesso stile di vita, ispirato ad un ritorno alla natura e ai tempi lenti, ad una profonda saggezza.
Ritiratosi in un paesino della verde e mistica Umbria, medita sui testi antichi e sui grandi della Storia dell’Arte (come Longhi e Berenson), ascolta le sinfonie di Bach, studia soprattutto la natura e la rende protagonista delle sue intense pennellate.
Com’è nata la tua passione per il disegno e la pittura?
Nasce dalla prima infanzia, quando più o meno tutti i bambini disegnano comunicando inconsapevolmente. Il disegno è il principio e la pittura non può prescinderne. Poi divenne passione, vedendo che mi risultava più facile comunicare attraverso questi media più che con il linguaggio verbale. Maturando ebbi la sensazione e la consapevolezza che per me era un bisogno primario rappresentare idee e concetti attraverso le immagini, come dicono i tedeschi: “Bildhaft Denken” (pensare pittoricamente).
Il 2018 è stato un anno spartiacque per te, che ti ha condotto a questa nuova vita in Umbria tra pittura e natura. Hai vissuto una sorta di epifania, ce la vuoi raccontare?
Il 2018 è stato l’anno della chiusura di un ciclo di sculture durato all’incirca 4 anni. Mi trovavo a Basilea per una mostra collettiva nel periodo della fiera internazionale Art Basel, e decisi di visitare la mostra di Francis Bacon e Alberto Giacometti alla Fondazione Beyeler. L’incontro con quelle opere fu una coincidenza, un avvenimento che stravolse il mio percorso artistico: quadri e sculture di una potenza tale da farmi vivere un’esperienza profondamente viscerale, una vera e propria epifania che mi spinse ad abbandonare la città di Roma e trasferirmi tra gli appennini Umbri, un luogo lontano e neutro, da dove provengono le radici dei miei avi, che mi ha permesso di tornare all’espressione pittorica, ben radicata nel mio passato. Ho sentito la necessità di aprire quel vaso di Pandora, guardare l’abisso che si cela nelle profondità cavernose dell’inconscio, quel bosco notturno animato da immagini di creature selvagge.
Sei un amante della filosofia antica, soprattutto stoica, e ci sono per te concetti molto importanti che emergono anche nei titoli stessi delle tue opere. Quali sono gli insegnamenti dell’antichità che più ti appartengono e accompagnano la tua poetica.
“Ogni cosa rapidissimamente tramuterà, e se la sostanza sarà stata unificata, tutto avvamperà per incendio, oppure tutto sarà disperso”: questo pensiero s’intitola “Fine delle cose”, fu appuntato nel libro “Colloqui con se stesso” (Ta Eis Heauton) da Marco Aurelio, imperatore che governò secondo un ideale di saggezza orientata dal pensiero stoico.
L’interesse per la filosofia stoica mi ha portato ad avere un atteggiamento interiore di continua tensione con la realtà che mi circonda. Per me la filosofia antica orienta la mia coscienza in un oceano di arcipelaghi di cartapesta.
Parliamo del tema attorno al quale ruota la mostra: Epimeteo. Come mai ti affascina questa figura di antieroe? Credi che potrebbe essere un simbolico contraltare alla “ossessione del successo” di cui continua a nutrirsi la società attuale?
Epimeteo è il fratello in antitesi di Prometeo. É una figura antieroica, erra ed è sbadato, presenta molti difetti e poche virtù, è più umano che titano. Quando ne scoprii la figura mitologica provai subito simpatia: mi affascinava la sua fallacia di eroe del nulla, che fosse “il perdente” eterno, il secondo per antonomasia. Così ho scelto di intitolare a lui la mostra.
La tragedia della vita nella concezione greca classica consiste nell’assurdità del mondo che l’umanità legge come una realtà senza senso. L’uomo, oggi come ieri, è tracotante, perde il senso del limite e vive nell’angoscia e nel timore della dimenticanza e dell’oblio. Si aggrappa dunque all’illusione della speranza, come un moderno Sisifo.
L’opera emblematica scelta per la locandina della mostra è Sole amaro, che è forse l’immagine più rappresentativa dell’antieroismo al quale ti riferisci. Ce la vuoi spiegare?
La risposta a questa domanda è già racchiusa nel significato simbolico di Epimeteo, di cui ho parlato in precedenza. Il titolo Sole Amaro è un ossimoro, una figura dialettica di forte contrasto, capace di provocare un impatto significativo. Rappresenta l’impossibilità di sfuggire all’inesorabilità del tempo, la sfida persa in partenza, il continuo dimenarsi per non soccombere ad una natura imperturbabilmente severa e castigante. La figura umana rappresentata nell’opera sono proprio io, incastrato tra le foglie spinose di un fico d’india mentre indosso come elmo uno scolapasta: un ridicolo “eroe del nulla”, che cerca di districarsi tra l’inestricabile.
Tra le opere allegoriche poste al piano di sopra spiccano diversi quadri ricchi di simboli e di rimandi. Mi sono rimasti impressi i busti reiterati di Caligola tra fiamme e gocce di miele, il bosco popolato di occhi che scorgiamo in Hortus conclusus (un luogo ameno o una selva oscura?), Prima o poi e Nell’arco della giornata che ricordano dei pattern vegetali, l’opera Kronos nella quale emerge un forte riferimento alla tradizione pittorica italiana. Puoi raccontare come sono nate queste diverse ricerche?
Caligola è reiterato nelle tre opere in un parossismo crescente: Apoteosi, Estasi, L’apoteosi e l’estasi. Caligola, imperatore follemente geniale e provocatorio, prendeva di mira le consuetudini della classe patrizia. L’opulenza dell’oro, lo sgorgare del miele, in un crescendo estasiante di sovrabbondante tracotanza rappresenta l’apoteosi effimera di un individuo che si proclamò divinità, ispirandosi alla teocrazia orientale, per finire prematuramente eliminato come un qualsiasi essere umano (ironia della sorte).
Hortus conclusus è un giardino edonistico, una natura viva che, se osservata, rivela elementi che ci osservano, come un bosco silenzioso dove vi sono esseri che ci scrutano, o come la bellezza di un albero che ci inganna poiché la nostra “sfocatura” (nel significato del termine che gli conferisce Boltzmann) non ci permette di vederne l’essenza meschina (figlia di una natura matrigna).
Prima o Poi e Nell’arco della giornata si basano sul concetto di “tempo” e “spazio” secondo Aristotele: <<Il tempo è solo misura del cambiamento e lo spazio è solo l’ordine delle cose; perché se due cose non si toccano vuol dire che fra loro c’è qualcosa d’altro, e se c’è qualcosa, questo qualcosa è una cosa, e quindi qualcosa c’è: non può esserci “il nulla“>> (Dal libro “L’ordine del tempo“ di Carlo Rovelli, p.65, Adelphi, Piccola Biblioteca 705, 2017).
Il titolo dell’opera Kronos prende ispirazione dall’omonimo titano Saturno – emblematica l’opera di Goya Saturno che divora i suoi figli – metafora della tirannide del tempo, dell’ossessione-tabù della finitezza del tempo a noi concesso. Nell’opera sono rappresentati elementi evocativi: la clessidra simboleggia il tempo, la tartaruga la lentezza e la pazienza, essa procede verso sinistra cavalcata da un teschio che guarda a destra incoronato da una corona di alloro dorato; si tratta della costante lotta paziente per sfuggire all’alfa e all’omega. Una donna che indossa una corazza dona la clessidra ad una figura maschile con il capo che sembra girarsi per non voler guardare l’inesorabilità delle cose – sono figure antropomorfe tratte dall’opera “L’adorazione dei pastori“ del 1591 de Il Cerano (Giovan Battista Crespi). Si tratta di un omaggio alla tradizione pittorica italiana di cui sono grande estimatore (sono una costante fondamentale e ben radicata in me lo studio approfondito della storia dell’arte italiana e l’amore per la grande pittura). Compaiono infine un orso e un lupo, entrambi creature selvagge che popolano le montagne: il plantigrado solitario, il canis lupus gregario di un branco. Ciò che conta è il binarismo degli elementi presenti nell’opera e la loro fondamentale esistenza per creare un equilibrio, che è sostanza del mondo.
Il piano di sotto – mi hai spiegato – vuole ricalcare una sorta di grotta, un luogo viscerale dove entriamo in contatto con la nostra interiorità. I soggetti sono dei ritratti che definisci “non eloquenti”. Alcuni di essi derivano da una tua particolare esperienza vissuta in Cambogia, altri sono ispirati al caravaggismo di Ribera, un quadro deriva da un fotogramma del film Nostalghia del 1983, etc.
La scelta del ritratto per te è una novità, cosa ti ha portato a concentrarti sulla figura umana e in cosa consiste la “non eloquenza” di cui parli? Perché il tuo viaggio in Cambogia è stato così importante, tanto da tornarti alla mente durante il lockdown? Ci sono degli effetti atmosferici nello sfondo di questi quadri di figura, che significato hanno? Il tuo autoritratto è tra le opere che più mi hanno colpito: con la mano copri il tuo volto, qual è il significato di questa particolare posa?
Ho sviluppato una mostra site-specific ragionata su due livelli: piano terra “Esterno-Interno“ e piano inferiore “Interno-Interiore“. Le opere del piano superiore sono “eloquenti”, dettate e ispirate dalle sensazioni che percepisco dal mondo naturalistico del luogo dove risiedo e che trasferisco su tela durante le sessioni quotidiane in studio; sono elementi in perenne movimento, vivi nel loro modo di essere e di divenire.
Al piano inferiore si accede tramite una scala, allegoria di un “percorso“ che ci conduce verso la nostra interiorità. Per quest’area ho scelto ritratti e mani, le parti che connotano l’espressività del corpo. Le mani del San Pietro Penitente di Jusepe de Ribera cercano con tutta la loro forza una risposta, ossessivamente si stringono come a simboleggiare la ricerca di una speranza lontana – le mani esprimono un nervosismo celato e mai pronunciato con parole.
I ritratti sono “esistenze“, ognuna ha sullo sfondo un fenomeno atmosferico diverso, unica espressione naturale riferita allo stato d’animo. Sono volti “non eloquenti” in senso Bergsoniano, sono lì e non dicono, non parlano, non cercano, non vogliono, non chiedono e non urlano, ma esistono come una creatura vivente respira, vive in questo mondo. Li guardiamo ritrovando noi stessi in quelle espressioni liminali.
É stata la prima volta che mi sono dedicato ai ritratti. Le fonti di ispirazione sono molteplici, nascono da un’esperienza vissuta in Cambogia (precisamente nella città di Phnom Penh) nel museo della prigione politica S-21 Tuol Sleng, museo del genocidio perpetrato dalla dittatura comunista dei Khmer Rossi: lì ho potuto osservare migliaia di fototessere che rappresentano le vittime, fantasmi dalle fattezze umane. Questa esperienza riemerse in me a passi sempre più forti e pesanti durante il periodo del lockdown, ispirata dalle voraci letture di Francis Bacon, di cui una frase mi rimase impressa: “Che altro siamo, se non potenziali carcasse?“.
Tra i ritratti ve ne sono due ispirati a questa domanda di Bacon: uno è tratto da un frame di Nostalghia (girato nel 1983 dal regista Tarkovskij), un ritratto-non-ritratto (di spalle) in cui la figura è rivolta verso un punto indefinito ed indefinibile. L’altro è un mio autoritratto, sommesso e impotente, che della vita vive le tragedie e accetta la propria limitatezza di essere umano in un giardino spigoloso e infinito.
A cura di Elena Fratini
Instagram: marco__ercoli
Instagram: 28piazzadipietra
Caption
Marco Ercoli, Apoteosi e l’estasi , 90×60 , olio su tela – Courtesy l’artista
Marco Ercoli, Sole amaro, 65×45 , olio su tela – Courtesy l’artista
Marco Ercoli, Gnoti Saton, olio su tela, 80 x 60 cm, 2019 – Courtesy l’artista
Marco Ercoli, Hortus Conclusus, olio su tela, 100 x 80 cm, 2019 – Courtesy l’artista
Marco Ercoli – Courtesy l’artista