Sono state le avanguardie storiche a contribuire alla ridefinizione dello statuto dell’oggetto d’arte e a favorire il dibattito artistico attraverso un procedimento di inclusione di nuove definizioni e nuovi assunti. In questo contesto, l’archivio come opera e come pratica trova le sue radici diventando luogo di (s)elezione in cui attingere mettendo in atto un processo di sottrazione di materiale altrui e assegnazione di nuovo significato, secondo singolari interpretazioni e nuovi paradigmi. In un recente saggio Archivi Impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea (Johan&Levi editore, 2016), la storica e critica dell’arte Cristina Baldacci, ne analizza le diverse modalità narrative, le esperienze artistiche e affronta temi come l’appropriazione, la ricollocazione nello spazio, l’autorialità e la nuova identità che scaturisce da quei prelevamenti.
L’impulso alla catalogazione è un’azione umana abituale volta a raccogliere immagini, parole e concetti organizzati nello spazio della mente che consentono di costruire la realtà del mondo. Una ricerca meticolosa e ossessiva per chi, come Linda Fregni Nagler (Stoccolma, 1976), proprio da questa operazione di accumulazione di “oggetti fotografici”, attribuisce una forma fisica alle sue opere e consente inedite traslazioni di contenuti. Dall’archivio nasce The Hidden Mother, ritratti di bambini con madri occultate dietro coperte, mantelli e plaid, quasi un migliaio di fotografie selezionate dall’immenso archivio personale, presentato alla 55esima Biennale di Venezia. Chiuse in una teca lunghissima, erano inserite nella sezione affidata a Cindy Sherman all’interno della mostra Il palazzo enciclopedico curata da Massimiliano Gioni.
Sempre dall’archivio elabora il suo ultimo lavoro HANA TO YAMA, ospitato lungo i corridoi e all’interno degli uffici di Banca Generali Private.La mostra, curata da Vincenzo de Bellis e visitabile fino al 7 aprile 2019, porta per la prima volta l’artista a Milano e inaugura il primo di tre appuntamenti previsti dal progetto BG Art Talent. L’esposizione è accompagnata da un elegante e essenziale catalogo (nella forma ma non nel contenuto), Yama no Shashin, edito da Humbbolt Books con testi di Vincenzo de Bellis e Simone Menegoi.
Più di trenta fotografie di diverse dimensioni di Hana to Yama (fiori e montagna), soggetti tipici della Yokohama Shashin, ovvero della “fotografia in stile Yokohama”, nata nel XX secolo, che univa la tradizione pittorica locale alle tecniche più recenti. I rappresentanti erano soprattutto occidentali trasferiti in oriente come Felice Beato (1832-1907), Raimund von Stillfried-Ratenicz (1837-1911) e Adolfo Farsari (1841-1898) e giapponesi tra cui Kusakabe Kimbei (1841-1934).
La fotografia giapponese pittorialista diventa il luogo di un’accurata tecnica di manipolazione e estrapolazione di modelli iconografici precisi. Un immaginario, per lo più anonimo, commerciale e amatoriale, raccolto dall’artista nel corso degli anni, che racconta i cliché della cultura asiatica tra ottocento e prima metà del novecento.
Nagler agisce con un procedimento complesso recuperando tecniche tradizionali come l’utilizzo del banco ottico, la stampa e l’intervento pittorico eseguiti a mano, riprendendo la pratica dei coloristi di un tempo. L’immagine è così restituita su carta cotone di trecento grammi, per renderla più simile possibile all’originale, ma presenta campiture di colore o sottrazione dello stesso in alcune aree. Questo espediente innesca il dubbio sulla natura ambigua di queste immagini e ne testimonia la non autenticità rendendo evidente l’inganno fotografico. Quello dell’artista che preleva, altera e estrae un nuovo oggetto ma anche quello del suo autore originale. Si trattava, infatti, di scene costruite appositamente per diventare i soggetti di album-souvenir dalle copertine preziose, contenenti circa cinquanta stampe, venduti ai primi viaggiatori dell’epoca. Un “processo di elaborazione culturale dell’oggetto fotografato che veniva rimandato in occidente come distillato di purezza, perché la fotografia ha anche una funzione sociale”, sostiene l’artista.
La serie Yama no Shashin, più di centoventi scatti (esposti solo in parte), traccia una scenografica linea di confine con il monte Fujiyama (2011). Una quinta teatrale che incornicia il paesaggio rurale circostante di Iwabuchi, Imaizumi Subuga e Tôkaidõ Bridge e segna una linea apparente di continuità nelle zone fluviali di Omiya Village, Kashiwabara e Tagonoura, in cui la distesa d’acqua sembra confluire verso la montagna. Nella serie Fuji from Otometoge, un punto panoramico privilegiato ancora oggi; il monte occupa quasi tutto lo spazio lasciando solo una porzione di terra, in primo piano, con la presenza di figure (umane e animali) che sembrano isolate e solitarie. In alcune il soggetto, l’inquadratura e il punto di vista sono i medesimi seppur realizzati in momenti e da autori diversi. L’artista ci spiega che “Le botteghe fotografiche dell’epoca sorgevano una a fianco all’altra, consentendo uno scambio di materiale e quindi la diffusione di modelli”.
Modelli ritratti in momenti di vita quotidiana sono raccontati anche in Flower Sellers (2018). Otto stampe di grande formato raffigurano venditori ambulanti con le caratteristiche strutture colme di fiori e oggetti. Nella serie Studio, geisha con kimoni di seta e obi (fascia) in vita sono colte davanti ai tipici fusuma, i pannelli che dividono gli interni delle case giapponesi. Ma è il luogo più icononico del Giappone, il monte Fuji, a fare da sfondo a jin-riki-sha (risciò) o kago (palanchine giapponesi), trasportati da uomini. Tutti elementi decorativi che suggeriscono una presunta mimesi con una realtà ancora una volta artificiosa, giacché opportunamente costruita in studio.
Messe in scena e contraffazioni conducono a una riflessione sull’ambiguità e la finzione resa dalla fotografia e sullo scatto quale oggetto che, al pari di altri, può essere prelevato e falsificato. Una scelta precisa quella di Nagler, estetica e concettuale, che stravolge l’idea di verità del medium e offre allo spettatore l’occasione di guardare oltre il visibile.
Elena Solito
Linda Fregni Nagler
HANA TO YAMA
a cura di Vincenzo De Bellis
10 dicembre 2018 – 7 aprile 2019
Banca Generali Private – Piazza Sant’Alessandro, 4 – Milano
Caption
Installation view Linda Fregni Nagler, Fujiyama form Gotenba, (YS_FUJI_LFN_048), 2018 – Hand Colored Gelatin Silver Print, cm 22,3 x 29,3, framed cm 42,4 x 43,7 – Courtesy Banca Generali Private, ph Banca Generali Private
Hana to yama – Linda Fregni Nagler -Banca Generali Private – Courtesy Banca Generali Private, ph Banca Generali Private
Pilgrim going up Fujiyama (YS_FUJI_068-Kusakabe Kimbei), 2018 e Untitled (Umbrella) (YS_FUJI_LFN_065), 2018 – Hand Colored Gelatin Silver Print – Linda Fregni Nagler – Hana to yama – Linda Fregni Nagler – Banca Generali Private – Courtesy Banca Generali Private, ph Banca Generali Private