In dialogo con Kiana Tajammol in occasione della sua personale presso Fondazione Le Monacelle di Matera

Kiana Tajammol (Arak, 1988), attrice, regista e artista visiva iraniana, inaugura la sua prima mostra personale nella città di Matera curata dalla scrivente e da Stefano Siggillino. Attraverso installazioni, opere video e fotografie, 43. indaga e approfondisce il dolore, la sofferenza e i soprusi che, da oltre 170 anni, si ripercuotono sulle donne iraniane. Continue lotte contro un regime che annichilisce il proprio popolo ora documentate da Tajammol con un analitico linguaggio eterogeneo, cruento, metaforico e informativo; un percorso di autoconsapevolezza verso una rivoluzione senza fine.

In occasione dell’inaugurazione della mostra abbiamo avuto la possibilità di parlare con l’artista e approfondire la sua opera, la sua vita e la sua ricerca.


Il tuo linguaggio artistico e il tuo modo di comunicare sono il risultato di molteplici esperienze, situazioni, positive e negative, che ti hanno formata, indirizzata e condizionata. Quale aspetto di Kiana emerge maggiormente in questa mostra? Hai voglia di raccontarmi qualcosa in più riguardo il tuo percorso professionale?

Nel corso degli anni il mio linguaggio artistico è rimasto pressoché lo stesso, ciò che ha cambiato forma è la mia prospettiva. Questa mostra per me è un omaggio ai 170 anni di rivoluzione femminista iraniana contro l’Hijab, e ai 43 anni di resistenza portati avanti dalle donne iraniane quotidianamente. Come tutti quelli della mia generazione sono nata e cresciuta sotto la Repubblica islamica dell’Iran, con una doppia vita piena di contrasti. Ho lottato molto: a scuola, all’università, in strada; ogni singolo giorno era una lotta continua finché, nel 2009, dopo il movimento verde, ho deciso di trasferirmi in Italia, precisamente a Milano, per studiare all’Accademia di Brera.

Dalle tue opere emerge la necessità di dare voce a milioni di donne vittime di ingiustizie sociali, giovani ragazze che lottano quotidianamente per i propri diritti da oltre 43 anni. Qual è la giusta modalità per divulgare simili contenuti e come pensi possa evolvere la situazione grazie alla condivisione sui social?

Finalmente, dopo 43 anni il mondo intero ha capito che l’Hijab non rappresenta esclusivamente la cultura iraniana ma è un simbolo imposto alle donne di qualsiasi religione o addirittura atee. Ho riflettuto molto sugli aspetti positivi e negativi dei social network, sul controllo che questi esercitano su di noi e sull’influenza che hanno sulle masse. Per esempio #MahsaAmini ci ha mostrato che è possibile far sì che la propria voce viaggi attraverso i social per arrivare in qualsiasi parte del mondo, ma non senza divulgazioni errate o parziali. Tutto ciò implica, a mio avviso, una maggiore attenzione verso le cosiddette fake news che circolano sul web e la facilità con cui le persone credono a tutto ciò che leggono. La soluzione è dedicare più tempo e attenzione alla ricerca di fonti diverse e attendibili, trovare notizie che diano corrette informazioni e riescano a chiarire la complessa situazione estera.

La legge sull’obbligo del velo, imposta dal regime in seguito alla rivoluzione del 1979, ha cambiato per sempre il volto dell’Iran e la vita delle donne che, come ben sappiamo, costituiscono il 67% dei laureati in Iran. Le contraddizioni della società iraniana in che misura condizionano la vita delle giovani donne e per quale motivo, secondo te, in Occidente viene ignorata questa loro ascesa sociale e lavorativa? Si sa ben poco della loro quotidianità, o sbaglio?

Sì, le donne iraniane potrebbero divenire un vero caso di studio per il loro coraggio e la lunga resistenza poiché, anche sotto il regime dittatoriale, hanno continuato a lottare per i loro diritti. Mi sono resa conto che, in Occidente, moltissime persone non sono a conoscenza della situazione delle donne in Iran, di come vivono, di cosa fanno e del ruolo che occupano all’interno della società. In Iran le donne sono piloti di aerei, sono a capo di organi privati e pubblici, di aziende, banche, università e persino a capo della polizia. Sotto il regime abbiamo donne in Parlamento, donne ambasciatrici e Ministri.

La censura in Iran non è riuscita a ostacolare il tuo lavoro e la tua voglia di rendere pubblici i maltrattamenti, i soprusi e le sofferenze subite che, inevitabilmente, hanno fatto parte della tua vita e di altre giovani donne iraniane che vivono lontane dal proprio Paese. Come hai vissuto questi ultimi anni e cosa ti ha spinto a trasferirti in Italia?

Ciò che ha maggiormente influenzato il mio percorso artistico è stata la decisione di abbandonare la carriera di attrice in Iran. Il cinema iraniano ha molto successo, ma non potevo e non volevo accettare la censura e il riciclaggio di denaro da parte del mio regime. Bisognerebbe chiudere gli occhi per continuare la propria carriera in una società di questo tipo ed io sono cresciuta in una famiglia in cui vivere onestamente è più importante della fama e della ricchezza. Ora, anche se con non poche difficoltà, realizzo i miei film senza limiti e senza censura e, nonostante la difficoltà di trovare fondi e produttori, posso dire di sentirmi orgogliosa di questa mia decisione.



6 Kiana Tajammol, Senza titolo, video installazione, 2022 Courtesy l'artista
5 Kiana Tajammol, Senza titolo, video installazione, 2022 Courtesy l'artista
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3Kiana Tajammol, Senza titolo, video installazione, 2022 Courtesy l'artista
2Kiana Tajammol, Senza titolo, video installazione, 2022 Courtesy l'artista
1Kiana Tajammol, Senza titolo, video installazione, 2022 Courtesy l'artista
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Il tuo lavoro di documentarista è in continua evoluzione, è un procedimento fatto di attimi tra loro sovrapposti che innestano nello spettatore una profonda e sentita riflessione riguardante differenti tematiche. In che modo riesci a bilanciare realtà e finzione e quanto della tua storia personale traspare dai tuoi lavori?

Cresco con i miei documentari, evolvo di pari passo, ritrovo in loro il cambiamento della mia prospettiva attraverso gli anni. A volte la linea di confine tra realtà e finzione si assottiglia a tal punto da poterla attraversare, giocando così con l’immaginazione e la fantasia. Nelle mie opere ci sono sempre dei segni, dei momenti, degli attimi che, come ombre, diventano metafore delle mie esperienze personali.

43. è la tua prima personale in uno spazio – la Fondazione Le Monacelle – importante dal punto di vista storico, culturale e artistico. È un luogo, databile intorno al 1.000 d.C., che ha assistito per molti anni a episodi di violenza e repressione, momenti inquisitori, stupri e fustigazioni nei confronti di giovani donne lì rinchiuse. È stato difficile, o più complesso del previsto, ideare delle opere tenendo conto anche di questo aspetto?

No, al contrario! Tutto ciò ha creato una maggiore connessione tra il soggetto della mostra e il luogo. Per secoli le donne di tutto il mondo sono state vittime di violenza e discriminazioni e, nonostante ciò, hanno lottato e lottano tuttora per i loro diritti. Ho apprezzato moltissimo l’intensità del luogo in cui è stata allestita la mia mostra e il modo in cui è stata gestita. La Fondazione Le Monacelle è stata in passato custode di episodi simili a quelli che si stanno verificando ora in Iran. La religione, qualsiasi religione, decide, governa e commette crimini.

Le tue opere per questa esposizione sono tutte site-specific e riflettono a pieno il clima di questo delicato periodo storico. Come pensi saranno accolte dal pubblico e quale tipo di feedback speri di ricevere? Hai timore di non essere compresa o di risultare eccessivamente provocatoria?

In questo momento storico tutti hanno più consapevolezza della situazione in Iran, forse in modo incompleto ma, tramite alcuni video e immagini, hanno almeno un’idea generale di quello che sta accadendo. Penso e spero che il feedback sia positivo. Io, con le mie opere, mostrerò dettagli e momenti che saranno inediti per la maggior parte delle persone. Alcuni hanno una visione distorta dell’Iran, altri credono di sapere qualcosa grazie ai film o ad alcune news. Io credo che sarà interessante per tutti acquisire nuove conoscenze e aprirsi a diverse realtà.

Le opere video, le installazioni e le fotografie, allestite in dialogo con tre differenti ambienti, creano una sorta di percorso volto ad approfondire accadimenti recenti e passati in un climax emotivo che trascende tempo e spazio andando a toccare le più intime corde dell’animo umano. È stato difficile, psicologicamente parlando, lavorare e parlare della tua Terra vivendo ora lontana da quest’ultima?

Non è stato per niente difficile, anzi! È naturale per me parlare dell’Iran, della politica internazionale e della situazione mediorientale. Con i miei amici, e a volte anche con sconosciuti incontrati in un bar, ho sempre condiviso questioni di questo tipo e trattato tematiche forse complesse e delicate. In questa occasione mi sono ritrovata a doverlo fare per molte più persone utilizzando però foto, video e installazioni. Per me è molto più semplice ma sicuramente più impattante e potente.

Intervista a cura di Alessia Pietropinto


Instagram: kianatajammol

Instagram: fondazione_le_monacelle


Caption

Kiana Tajammol, Senza titolo, video installazione, 2022 – Courtesy l’artista