Artista visivo e ricercatore, Luca Staccioli (Imperia, 1988) ha studiato musica, filosofia, pittura e, infine, arti visive e studi curatoriali presso la NABA, Nuova Accademia di Belle Arti di Milano.
Attraverso una ricerca sperimentale, orientata alla processualità e che include media differenti, l’artista indaga la natura frammentata del contemporaneo, intesa come un palcoscenico sul quale mettere in correlazione un’intima dimensione esperienziale con le dinamiche di costruzione delle narrazioni identitarie, geografiche e storiche. Le sue opere esplorano archeologie del presente attraverso un metodo di stratificazione e combinazione di micro-storie, memorie sradicate, oggetti quotidiani e immagini nomadiche che prolificano nella dimensione globale-locale e negli apparati tecnologici.
Vincitore dell’ultima edizione del Premio Francesco Fabbri nella sezione arte emergente, Staccioli è in mostra alla Fondazione Adolfo Pini con il progetto espositivo Donner à voir, in corso fino all’11 Gennaio.
Da quanto tempo fai l’artista e quali sono le differenze da quando hai cominciato a oggi?
Ho iniziato a lavorare come artista molto recentemente, al massimo da due anni. Dopo gli studi in Filosofia, mi sono iscritto all’Accademia di Belle Arti di Genova. Non avevo intenzione, fin da subito, di fare l’artista di professione, come scelta di vita, con immaginari e significati annessi. Sentivo però il bisogno di un metodo plausibile per dare forma alle mie riflessioni. Mi ero accorto, infatti, che attraverso la filosofia stavo vivendo una dimensione troppo mentale di me, che non mi faceva stare bene. Mi mancava il corpo: sentivo l’esigenza di dare una forma alla materia, anche per percepire maggiormente la mia di corporeità. Penso sia stato un passaggio importantissimo nel mio processo di individuazione, c’era qualcosa di artoudiano. Iniziai a dipingere e disegnare. Dopo qualche anno presi con più serietà e professionalità la cosa, cominciai a visitare bulimicamente mostre cercando di viaggiare il più possibile. Muovendomi poi tra Milano, Parigi, Berlino, Linz, Marsiglia ho iniziato a conoscere sempre più persone stimolanti e trovare un mio spazio. Ora mi sento più calmo, passo più tempo a lavorare in studio a Imperia, a depositare idee. Non saprei trovare delle differenze concrete, è un’evoluzione continua, un interrogarsi costante e un interrogare il mondo. Ora sto lavorando intensamente perché cerco di mutare continuamente. Ho in mente molte cose: è un po’ come diventare persone, soggetti consapevoli di sé, e non solo individui in un mondo pre-impacchettato e spedito a casa.
Questa urgenza di costante ridefinizione è molto evidente nel tracciato da te finora percorso, che ti ha portato a spaziare fra varie discipline, oltre alla filosofia e alle arti visive, nel corso degli anni. Come si intersecano questi differenti ambiti nella tua pratica artistica? E quali sono state le maggiori influenze sul tuo lavoro?
I metodi delle varie discipline della mia formazione stanno diventando sempre più intersecati e sinergici. Sento di potere e volere ancora lavorare in quella direzione: mi interessa riuscire a sviluppare un pensiero mischiando diversi metodi e influenze. Non credo in una reale divisione delle discipline: tutto diventerebbe sterile.
Le mie influenze sono varie: la filosofia, prima con un approccio più esistenzialista, oggi più improntata verso un discorso ermeneutico, ecologico. Ma anche la poesia e la letteratura, da Camillo Sbarbaro e Eugenio Montale a Carlo Emilio Gadda e Guido Morselli per citare la letteratura italiana. La musica mi fa sempre pensare alla necessità di una emozionalità espansa e sinestetica nei miei lavori, è una domanda ancora ampiamente aperta; allo stesso tempo la musica mi aiuta a leggere l’immagine: la durata, i tagli, i ritmi. Sicuramente la pittura mi ha influenzato profondamente; nel mio lavoro c’è un lento e silenzioso tentativo di interrogare me nell’oggi e di oggi, attraverso artisti che all’inizio del mio percorso sono stati fondamentali: vicini o distanti a quello che produco, sono un appoggio, non con un senso di riverenza, semplicemente come uno sguardo, sempre curioso. Molteplici e apparentemente forse non associabili, ne cito alcuni in ordine casuale: Giorgio Morandi, i disegni e le pitture di Alberto Giacometti, Varlin, Nicolas De Staël, Graham Sutherland, ma anche Dieter Roth, Gerhard Richter; vi riconosco un dimensione politica e radicale.
La tua ultima mostra, Donner à voir, inaugurata il 5 Dicembre alla Fondazione Pini, prende le mosse da una dimensione particolare per andare a sondare tematiche universali, come l’arbitrarietà della narrazione storica e la forte tensione fra appartenenza e disorientamento nella creazione di immaginari identitari. Ci racconteresti più nel dettaglio di questo progetto?
Donner à voir è un percorso che, partendo dall’idea di narrazione storica, dai suoi campi di forza, dalle sue propaggini e, soprattutto, dai resti e dagli scarti che crea con il suo cieco divenire, interroga la famiglia, il domestico, l’immaginazione. Si tratta, inoltre, di una domanda sul linguaggio, la sua retorica, la sua autorialità. Il progetto è una cornice teorica per riflettere sulla memoria, mia, e collettiva, e sulla possibilità di riconsiderarsi.
La mostra prende avvio dalla figura di G. Staccioli che, alla fine degli anni Quaranta, si trovava in prigione per un crimine sconosciuto. Staccioli commutò la pena arruolandosi nella Legione Straniera a Marsiglia: andò così a combattere in Indocina (1946-1954). Di lui non si sa più nulla: rimangono soltanto alcuni documenti ingialliti conservati in un archivio della Legione Straniera, un certificato di morte, il cognome Staccioli – che mio padre ha ereditato, per cavilli burocratici, senza essere consanguineo del defunto (Staccioli è ora anche il mio cognome) –, e un rullino fotografico. Le immagini appaiono ormai completamente cancellate, il contenuto irriconoscibile. Dal vuoto creato da queste immagini ho sentito l’esigenza di aprire uno spazio di sperimentazione.
Grazie alla Fondazione Pini e alle sue borse di studio per progetti inediti a cura di Dalia Gallico, ho avuto la fortuna di passare un periodo di studio a Marsiglia, affiancato da Sonia D’Alto e CODE South Way. In Francia, ho potuto immergermi nell’archivio militare della Legione straniera francese ad Aubagne, dove ho trovato un faldone di documenti relativi a G. Staccioli. Non potendoli riprodurre per motivi legali, ho iniziato a ridisegnarli, così come a riconsegnarli all’immaginazione (in mostra ce ne sono tre). Questi documenti sono diventati per me dei paesaggi, che assieme alle fotografie del rullino cancellato hanno iniziato a prendere la forma di una tappezzeria domestica. Così spunta un corpo ambiguo (studio per un figlio #1) al centro della mostra: una culla o una gabbia, un corpo a sé, grottesco e inquietante forse, o un corpo imprigionato in un presente fatto di scarti e resti? Si tratta del tentativo di ri-rappresentarsi, in maniera a tratti indiziale, a tratti ermeneutica: il potere di un processo di re-immaginazione critica. È un gioco di finzionalità che si intersecano continuamente. Per le sale della mostra sono sparsi alcuni giocattoli e memorie di studio per un figlio, segnati da una immagine della violenza della guerra e della storia. Ma vi è anche la violenza del fallimento delle istituzioni e degli immaginari identitari, che legati alla famiglia, si coagulano in categorie e gerarchie coercitive. A mio avviso, l’immaginazione appare indispensabile per la sopravvivenza collettiva.
Il tema della narrazione, con tutte le sue criticità e i suoi spazi di possibilità, è centrale anche nel video Was it me? Screen memories, opera vincitrice del Premio Fabbri. In questo lavoro emerge chiaramente, a partire dalla scelta del medium e dei materiali utilizzati, la complessa relazione fra comunicazione virtuale e processo di costruzione del sé. Quali sono gli elementi principali su cui ti sei interrogato per la realizzazione di quest’opera?
Direi che il tema centrale è esattamente questo: la costruzione del sé. Il processo di costruzione del sé passa attraverso un esame critico del processo identitario, della storia, della separazione, sempre più pericolosa, tra individuo e mondo. La fallacità e arbitrarietà di quello che comunemente viene chiamato cultura, identità, appartenenza, si ritrova poi nel viaggio (che nel video diventa teso tra l’iper-distanza e l’iper-vicinanza), nella tecnologia e nel virtuale, quindi nella geografia e nei retaggi coloniali dell’idea stessa di viaggio e turismo. Was it me? Screen memories è, dopo Windoscape #1 e Inhabitin Atlas: through the window-pane, il terzo capitolo che declina questi temi.
Nel video è presente il tema della rappresentazione: se la rappresentazione sia un processo conoscitivo è una domanda ambigua. La rappresentazione in sé è sempre molto problematica rispetto alla possibilità di distaccarsi da sistemi visivi precostituiti. Nelle fasi di ripresa del video è stato molto importante giocare con le interferenze che si creavano tra la telecamera e lo schermo, in cui le immagini trovate in sharing platform e social network scorrevano come imprigionate. Ho potuto lavorare in maniera estremamente pittorica, ricca di citazioni, rimandi con le loro forti implicazioni.
Che tipo di progetti hai in programma per il futuro?
Subito dopo l’inaugurazione della mostra in Fondazione Pini, mi sono precipitato a lavorare su nuovi disegni e sculture per continuare a indagare la relazione tra memoria, immaginazione e domestico: disegni e assemblage, altri studi per un figlio, un album di foto ricordo. All’interno di questo filone si inserisce un lavoro video che sto concludendo: Please stand behind the yellow line (DHG), che prende spunto dal romanzo distopico di Guido Morselli Dissipatio Humanis Generis. Al centro del lavoro ci sono dei guanti gialli, indossati inconsapevolmente da tutte le persone: è una metafora della distanza tra individuo, mondo esterno e sentimenti, normativizzata da forti strutture coercitive. Anche in questo lavoro riappare la dimensione domestica, con le sue ambiguità e fratture.
Inoltre, insieme a Piergiorgio Caserini, Giovanni Copelli e Sonia D’Alto stiamo organizzando un finissage della mostra Donner à voir in Fondazione Pini, l’11 Gennaio, a cui abbiamo invitato anche Matteo Binci, e che si svilupperà come una conversazione orizzontale tra noi e il pubblico attorno a questi temi.
a cura di Ginevra Ludovici
Donner à voir
05 dicembre 2018 – 11 gennaio 2019
Fondazione Adolfo Pini – Corso Garibaldi, 2 – Milano
Instagram: luca_staccioli
Caption
Luca Staccioli – Courtesy l’artista
Luca Staccioli – Donner à voir, vista mostra presso la Fondazione Pini – Courtesy Fondazione Pini e l’artista
Luca Staccioli – Donner à voir: compleanno 7°, 2018, 25x50x70 cm, didò, candele, vassoio di carta, canna di bambù, resina epossidica, compensato – Courtesy Fondazione Pini e l’artista