“Fantini, sei in studio ?” Dialogo con Marco Fantini

Lo studio di Marco Fantini è quello che frequento di più, è un luogo accogliente, ci si sente a casa. L’accoglienza per i non milanesi come me è una delle caratteristiche peculiari del tuo spazio.

Beh, si tratta di una casa-studio, è un luogo nel quale operosità e relax casalingo finiscono col confondersi, forse è questa la ragione.

Comunque il tuo studio, nei momenti migliori, quando è molto operativo, assomiglia a quello di Bacon, è incasinatissimo.

Mi hanno sempre rotto le palle con questa mia presunta somiglianza con Bacon, la cosa mi disturba perché sembra ribadire l’idea che io lo imiti. Forse abbiamo un atteggiamento di fondo simile, un sentire e un reagire simile a determinate sollecitazioni come la passione per l’azzardo, comunque anch’io lavoro nel disordine, l’ordine è un po’ come la tela bianca, mi inibisce. Una somiglianza caratteriale quindi, un metodo apparentemente indisciplinato, ma da un certo punto di vista piuttosto rigoroso e rischioso, l’azzardo appunto.

Quindi quello che trovi in studio diventa materiale per i quadri?

Non esattamente, quando lavoro ho sempre fretta, una specie di urgenza interna che mi porta ad abbandonare gli strumenti man mano che li adopero, e se sto lavorando a un ciclo di opere, questi abbandoni diventano immondizia vera e propria, inutilizzabile, da non confondersi con gli scarti dell’opera che invece si prestano a un riciclo, a una seconda vita.

Spesso inserisci delle scritte nei tue quadri, ricordo “Je ne suis pas responsable du picassisme

Sì, in più casi ho riscritto su delle tele la sua celebre affermazione, in altri casi ho inserito solo la frase tronca: “Je ne suis pas responsable du P”. Io, che mentre dipingo cerco di mettere da parte il pensiero, a fine opera mi diverto a disporre sulla tela, quasi conclusa, alcune sharade linguistiche atte a depistare, a diminuire la portata emozionale del lavoro, quello che io sento un eccesso di espressività. L’utilizzo del francese, in questo caso, mi aiutava a nascondermi e a ribadire la mia fascinazione per la lettera P, lettera che compare con frequenza nei miei dipinti. Non mi chiedere il motivo che non lo so. So che mi piace l’ironia di quella frase e che anche a me, ironicamente, piace affermare che neppure io sono responsabile, di cosa poi non lo so, i sensi di colpa hanno mille sfaccettature.

Marco Fantini
Sad Vehicle – stone and wood, 750x140x195 cm (from Out of Place, Manifesta 7 parallel event), 2008 – courtesy Marco Fantini

Ci conosciamo da tanto tempo e osservo come nei tuoi lavori dipingi sempre meno, infatti la tua ultima mostra è dedicata al disegno.

Ho ironizzato anche su questo, dicendo che non ho più voglia di “ingravidare” la tela. Sai, il quadro per me dev’essere qualcosa di vivo. A mio giudizio un’opera è riuscita quando sento che ricambia il mio sguardo, senza tuttavia restituirlo. Io non amo riconoscermi nell’opera, le sono straniero. Io guardo il quadro e il quadro guarda me, due estranei che si scrutano. Questo desiderio di dar vita ad un’opera nella quale non mi possa riconoscere è appunto assimilabile al desiderio di ingravidare la tela, la tela che è stata fecondata di potenza vitale ora l’emana. Questo processo è evidentemente faticoso e negli ultimi anni ho dovuto estenderlo ad altri mezzi espressivi, al disegno soprattutto. Perché l’atto della pittura è un travaglio per me faticosissimo e durante un certo periodo sentivo di non avere abbastanza energie per affrontarlo, quindi al disegno ho affiancato una metodologia molto personale, che si basa sul riutilizzo degli scarti, di quelli che definisco scarti dell’inazione. La stasi, infatti ,non è mai tale o totale, si trascina dietro residui di operosità. Ecco, questi residui, ricomposti, ritrovati, scoperti, quasi fossero tesori abbandonati mi si ripresentano allo sguardo sotto forma di tracce germinali fondamentali, si tratta solo di ricomporli e integrare le parti mancanti.

Hai trovato nel disegno uno strumento più “essenziale”?

No, non si tratta di uno strumento, quello che faccio è tutto molto legato al caso. Che io disegni, dipinga, o scriva, agisco cercando di non strumentalizzare il mezzo, capisci? La mia recente mostra torinese non è dedicata al disegno per il fatto che disegno, ma allo strumento matita, al suo essere apparsa nel corso degli anni in moltissimi miei quadri, snaturata dalla sua funzione. Chiaro che il disegno è da sempre parte integrante del mio lavoro. Ciò nonostante non mi sento un disegnatore. Ma è indiscutibile che, seppur inconsciamente, la matita è il soggetto di molte mie opere recenti, molti personaggi dei miei quadri impugnano una matita. Mi sono accorto di questo fatto proprio recentemente, andando a zonzo per lo studio. Ecco perché è diventata il fulcro della mia ultima mostra.

Infatti, entrando in un capannone industriale, dei pali da recinzione appoggiati al muro, ti sono apparsi come delle matite.

Quei pali abbandonati mi sono subito apparsi come delle matite a cui si doveva semplicemente temperare la punta, erano già pronti per essere usati. Mi piace l’idea di trovare del materiali già pronti da utilizzare, si tratta unicamente di saperli riconoscere e per riconoscerli, naturalmente, si deve mettere da parte qualsiasi tipo di visione preconcetta e predisporsi all’incontro. Lo stesso accade con i quadri peraltro. Le prime fasi di lavoro generano un groviglio inestricabile di possibilità che spesso sono costretto ad abbandonare. Poi un giorno, per caso, mi ritrovo di fronte a quella tela, tela che non sento più mia, ma che percepisco come un oggetto trovato a me esterno e carico di potenzialità. A quel punto, tutto diventa chiaro e l’impasse che l’aveva costretta nel dimenticatoio caotico del mio studio, viene superato con pochissimi ma efficaci passaggi

Vorrei aggiungere un’altra cosa sulla matita: a volte la sento come uno strumento di difesa, un’arma per trafiggere.

Non per niente le tue sono dei pali!

Pensa all’iconografia di Polifemo che viene trafitto da un palo, alla fine cos’è se non una matita? Ricordo che durante una conferenza con Recalcati ho proposto una sorta di lapsus verbale. Stavo spiegando quanto è importante essere riconosciuti per la propria cifra stilistica, (io che dubito di averne una sola) e affermavo che mancare l’appuntamento con lo stile significa mancare l’appuntamento col pubblico, quando, improvvisamente, mi apparve questa possibilità fonetica di trasformare la frase “lo stile” con “l’ostile”. Questo gioco che mi divertiva, in termini di boutade, mi ha poi portato a riflettere circa la possibilità che i miei lavori presentino un’inconscia ostilità recondita e che sia questo il motivo per cui inquietano il pubblico. Forse sono attraversato da una convinzione inconscia che se l’opera non è ostile non si saprà difendere dal pubblico, come se volesse anticipare il colpo, difendersi ancor prima di essere accusata di qualcosa.

Marco Fantini
Holly – 2014, mixedmedia on canvas, 130x150cm – courtesy Marco Fantini

Di essere responsabili del “picassismo”?

No, questo non c’entra, non ho paura di somigliare a Picasso come a Bacon. L’aggressione di cui parlo è di natura psicologica. Sai, nel lavoro metto molto di mio, mi espongo e temo di essere vulnerabile.  Probabilmente rendo i miei quadri aggressivi per la paura di aver detto troppo di me. Uso l’ironia per lo stesso motivo: ironia e provocazione sono forme del pudore, azioni che mirano a raffreddare un eccesso di pathos, tant’è che non sopporto le opere intrise di grida, lacerazioni, dolore, le trovo finte, cliché inoffensivi che piacciono moltissimo al pubblico, proprio in quanto parodie inoffensive della sofferenza umana.

I tuoi papi hanno tutti il volto cancellato.

I miei non sono papi, sono dei cardinali, dei “punti cardinali”. Sono nati semplicemente come teste, ma poi quella livrea rosso porpora e quei colletti settecenteschi mi suggerirono la via cardinalizia. I volti sono cancellati, anzi, rimossi. Ma se volesse proprio paragonarli a qualcuno preferirei che citasse Fautrier, la storia dell’arte è molto più evoluta dei luoghi comuni.

Parliamo di gatti e topi. I tuoi Micky Mouse si intitolano “Topos”, ma in greco il termine non significa “Topolino”, mi spieghi il senso di questo ennesimo lapsus?

I miei topi sono dei luoghi, dei luoghi mentali in cui la paura si manifesta.

E perché hai scelto un’icona della Disney per rappresentarla?

Per caso, mi regalarono un fumetto vintage (topolino e il pipistrello) e vidi quest’immagine in cui topolino era solo, sorpreso e spaventato, sicuramente impreparato, mancava l’oggetto della sua paura, esisteva solo il soggetto portatore della paura, fu quello che mi colpì. Era perfetto.

E i gatti dello studio ti difendono da questa paura?

Potrebbe essere divertente, la verità è che i gatti di città non son mica tanto bravi coi topi, comunque io non ho paura dei topi e i gatti non mi dovrebbero difendere dal topo, ma dalla sua paura, che poi è chiaro che quel topo spaventato sono io no? Il soggetto dei miei topoi non è il topo, il soggetto è fuoricampo, assente poiché inconoscibile. Il soggetto dei miei topoi non è nemmeno la paura. Il soggetto è il motivo scatenante di quella paura. Comunque i gatti sono una presenza invisibile nello studio, sono belli, eleganti.

Marco Fantini
Punti cardinali – mixed media on canvas, 12 pieces, 30x30cm eac, 2012 – courtesy Marco Fantini

A me il tuo studio ricorda una poesia di Apollinaire: “Vorrei avere nella mia casa: una donna ragionevole, un gatto che passi tra i libri, degli amici in ogni stagione senza i quali non posso vivere.”

I gatti che si muovono fra i libri o che guardano un quadro, sono più belli e puri di un uomo che guarda lo stesso quadro, l’uomo di fronte all’opera d’arte non è quasi mai onesto e imparziale, è sempre un emanatore di giudizi morali, di ragionamenti e si allontana dal mistero del quadro, mentre il gatto che è misterioso in sé, si sposa e si fonde con l’opera.

Hai proposto installazioni imponenti in alcune tue mostre, penso al Teatro India e a Manifesta.

Anni fa partecipai ad un evento collaterale di Manifesta a Trento e decisi di collocare una scultura in pietra che pesava tre tonnellate. Non un’installazione quindi ma una scultura. Al Teatro India, come quasi in tutte le mostre successive, mi sono misurato con una pluralità di linguaggi, che, nel loro insieme, riconducevano all’idea di installazione, ma in verità ogni volta che mi rapporto con un linguaggio, questo avviene secondo le regole di quel singolo linguaggio, una mia mostra è spesso l’installazione di una pluralità di linguaggi singolarmente conclusi ed autosufficienti. Quando realizzai la mostra Antilogia a Napoli, ho “installato” una serie di lavori molto eterogenei e stratificati nel tempo. Collocarli è stato come creare una nuova opera, come ti dicevo prima, quando faccio un’esposizione il criterio dell’installazione subentra successivamente perché gli stessi miei quadri, col trascorrere del tempo, mi appaiono un po’ estranei, mi si presentano come materia nuova e nel momento in cui li ricolloco per me è come giocare a costruire un Frankenstein. Ora siccome ognuno di quei pezzi conteneva una sua vita indipendente, la scintilla che li doveva far rivivere nel loro insieme diversificato era lo sguardo delle persone. Il mio Frankenstein ha abbozzato qualche timido passetto ma poi si è arenato: colpa mia o del pubblico? Per forza del pubblico! (risata)

Oggetti trovati, neologismi e giochi di parole, quadri con una gestazione lunghissima (vedi “Il grande Vetro”), dipingi quando e come vuoi, giochi a scacchi, non ti ricorda Marcel Duchamp?

Azz, Bacon e Duchamp! Sai, la mia tendenza a cancellare e distorcere le figure, nonché la mia atavica indolenza e la mia recente passione per gli scacchi non credo siano motivi sufficienti a giustificare paragoni simili. L’artista che amo maggiormente è comunque Picasso. Perché un giorno di fronte a una sua opera ho percepito il suo sguardo posato sulla mia persona. Uno sguardo feroce, che viviseziona e sottomette. Quell’opera, senza ombra di dubbio mi guardava.

Marco Fantini
Storia della matita – 2014, mixed media on canvas, 180x200cm – courtesy Marco Fantini

Di quale opera si trattava?

Non ricordo il titolo e non ho scattato nessuna immagine. Mi trovavo alla fondazione Bayeler di Basilea, in occasione di un importante mostra su Giacometti. L’opera era in una sala a parte, e faceva parte della collezione permanente. Ricordo una testa piccola che sembrava in appendice ad un lunghissimo collo femminile. I toni erano verde acido e blu e la pittura data con urgenza, senza enfasi, ma forse, proprio per quello efficacissima. Ed aveva un unico grande occhio. Un occhio potente, che mi fissava ed immobilizzava trasformandomi da spettatore pagante in oggetto della visione.


LORIS DI FALCO – SEI IN STUDIO ?