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Com’è nato e si è sviluppato il rapporto con l’arte visiva, durante e dopo il tuo periodo al Politecnico di Milano, dove hai frequentato la triennale di Architettura? Come questa ha influito sul tuo pensiero e pratica artistica?
Devo dire che, come ogni adolescente che cerca di fare una scelta così impegnativa in una fase così strana e nuova della vita, l’idea di iscriversi alla triennale di Architettura al Politecnico di Milano è stata dettata, in parte dalle considerazioni che avevo avuto modo di fare rispetto agli interessi dominanti dei miei allora 19 anni, e in parte dal puro caso. Mi spiego meglio, le motivazioni pratiche che mi hanno spinto all’epoca a iniziare quel tipo di percorso accademico si sono rivelate, poi, a soli tre anni di distanza, inattendibili. Ma nella vita tutto serve. E così sono servite le lezioni, i laboratori, gli amici, i professori e, soprattutto, la consapevolezza che il metodo e il ragionamento su un tipo di scala più vicina a quella reale, 1:1 per intenderci, era ciò che mi appassionava di più. Ho scoperto l’architetto e urbanista Giancarlo De Carlo e con lui l’esistenza di un rapporto intimo tra lo spazio e chi lo abita, che la partecipazione consente di recuperare la critica e il dissenso, il disordine e i conflitti, declinandoli secondo una prospettiva che sottrae l’architettura agli architetti per restituirla alla gente, che la usa, che la occupa. Quale mostra più riuscita se non quella di una Triennale, la XIV, che voleva sensibilizzare il pubblico sui grandi fenomeni di trasformazione della società di massa, sul “Grande Numero”, invasa da ragazzi, artisti, architetti e studenti che contestano l’inadeguatezza dell’istruzione e i suoi ritardi, la riduzione a merce della cultura, e soprattutto l’alienazione del lavoro intellettuale che vanifica le istanze della ricerca? Le porte di quel palazzo sarebbe potute rimanere chiuse per sempre, le sue stanze, vuote. Penso che la più grande eredità di quei primi anni di studio, che ancora oggi in ogni mio lavoro mi porto dietro, sia stata questa: la contingenza. Assieme alla consapevolezza di aver preso da quel mondo, fatto di alzate e pedate, tutto quello che mi è servito per la scelta successiva.
Come inserisci la ricerca nel tuo lavoro, come la intendi, come la sviluppi? Quanto è stato importante il passaggio tra le due accademie frequentate? Qual è il rapporto con le ricerche fatte e l’accademia?
Se c’è una cosa che questa pandemia mondiale mi ha fatto capire ancora più a pieno è l’imprescindibilità della ricerca. Il fatto di vedersi confinati fra quattro mura – qui torniamo a dilemmi di tipo architettonico – ti preclude un’infinità di possibilità di azione. Non c’è proprio lo spazio fisico, né tanto meno quello mentale, per la pratica. E questo in qualche modo mi ha fatto rivalutare altri spazi, certo meno reali, ma molto più concreti e percorribili in quel momento. Se già nel mondo pre-covid la scrittura, la ricerca, l’archivio, erano per me gli strumenti primi da cui far partire ogni idea, dopo l’anno appena trascorso sono arrivata alla conclusione che spesso alcuni progetti si formalizzano nella ricerca stessa, e proprio per questo bisogna farli durare: dargli lo spazio che si meritano. Questa è stata esattamente la stessa dinamica che ha fatto sì che decidessi di continuare le ricerche iniziate a Londra anche a Milano. Partiamo dal presupposto che il sistema accademico anglosassone e quello italiano, almeno nella mia esperienza, sono forse agli antipodi. Dopo un anno di master intensivo a Chelsea, trascorso vivendo 12 ore al giorno in questi workshop fantastici, tra ceramiche, fusioni e saldature, mi sono resa conto sia di aver gettato solide basi per tanti lavori futuri, sia che nessuno di quelli realizzati era sufficientemente maturo. Così, sono tornata a Milano per iniziare un nuovo percorso, questa volta di due anni. Per rispondere con le parole di un artista ed ex-collega, a cui in mia presenza è stata fatta la stessa domanda, ti dico: “mi ha dato e mi ha tolto.” Il rapporto tra i progetti di ricerca e la NABA, esattamente allo stesso modo dell’esperienza del Politecnico di Milano, è stato sicuramente determinate: probabilmente oggi non avrei gli stessi interessi che ho e non mi farei le stesse domande che mi faccio se non avessi incontrato quel compagno, quel professore, quell’artista, quell’opera e via dicendo.
Nei tuoi lavori utilizzi campi esperienziali diversi – pittura, performance, post-produzione. La tua ricerca artistica si fonda sull’analisi delle diverse declinazioni del linguaggio memetico, passando dalla grammatica, alla mutazione, alla viralità e alle pratiche di contro-visualità collegate allo stesso. Questo è un possibile breve riassunto del tuo lavoro artistico, tu come ti racconteresti?
Odio le definizioni e soprattutto odio definire me stessa e il mio lavoro. Ti direi forse che il vero centro del mio lavoro artistico degli ultimi anni – ma a pensarci bene forse addirittura fin dai suoi timidi inizi, anche se magari non ero ancora molto in grado di definirne l’ambito – riguarda l’idea di comunità. E non solo di quella virtuale, dei libri di Howard Rheingold, che indubbiamente è il motore di tutti i miei ultimi progetti e collaborazioni, da Mr. Party Pooper e le sue meditazioni, a Rapsodia Botanica, a tutta la ricerca teorica e visuale che c’è dietro Memaze. La questione è sempre la stessa: come è possibile che degli individui che fino a poco tempo prima vivevano vite completamente indipendenti, a un certo punto si mettono insieme? Si inventano un linguaggio che li accomuna, condividendo un sistema di significati, così di propria iniziativa, semplicemente perché le parole che erano da sempre stati abituati a usare forse non bastano più per esprimersi.
Quanto è importante per te la commistione di linguaggi nel tuo lavoro?
In una scala da 1 a “non potrei vivere senza” direi che non potrei vivere senza; proprio perché da quel mix, da quella miscela, nasce lo spirito di iniziativa, l’intenzione, il bisogno stesso di fare comunità. E quando parli di commistione, magari mi sbaglio, ma conoscendo la tua ricerca non credo, so che non fai riferimento semplicemente al medium, al motivo che mi spinge un giorno a dipingere, l’altro a scolpire, il mese dopo a montare un video, scrivere di feste o produrre palloncini, ma so che parli anche di lessico, di sintassi e di morfologie. Non penso sia un caso che mentre facevo ricerca per il progetto di Memaze frequentassi, da uditrice, delle lezioni di Estetica e Teoria della rappresentazione dell’Immagine, in un’università che non era la mia. Così come non penso che sia un caso che uno dei prossimi progetti a cui sto lavorando, assieme a due preziosissimi amici, e che spero vedrà la luce a maggio prossimo, utilizzi la lingvo internacia per eccellenza, l’Esperanto e forse il suo più prossimo corrispettivo in abito artistico: la performance.
I tuoi lavori hanno diversi piani di lettura, dal più concettuale al più esistenziale – cosa vorresti che il fruitore percepisse\interiorizzasse\utilizzasse?
Quello che sente più vicino in quel momento. Penso che l’atteggiamento pansessuale nei confronti delle idee vinca sempre. Mi spiego meglio, e per farlo come al solito uso parole non mie, in particolare, una citazione di Cesare Pavese tratta da Il mestiere di vivere. Sostanzialmente dice che leggendo – ma in questo caso specifico, spero Pavese non me ne voglia, potremmo sconfinare nell’ambito della fruizione di un’opera – non si cercano idee nuove, ma pensieri già pensati, semplicemente più reali perché già detti da altri, pensati da altri e non per questo meno nostri. Anzi, delle idee altrui ci colpiscono proprio le cose che risuonano già dentro di noi e così facendo ci permettono di riscoprici, cambiare opinione magari, crescere.
Se arte contemporanea significa abbandono delle τέχνη [téchne], allora, il termine non è più sufficiente perché oggi, la maggior parte degli artisti non abbandona la tecnica, non l’ha mai conosciuta. A te basta? Ti senti inclusa?
No, forse il termine non mi basta. Anche se per un motivo diverso, che con la tecnica forse a poco a che vedere. Penso che la difficoltà nel sentirsi inclusi all’interno di questo pantagruelico sistema sia legata all’impossibilità di definirlo criticamente. Fino a vent’anni fa si potevano forse notare ancora certe tendenze etichettabili, più o meno facilmente a livello iconoclastico, come frutto di un particolare indirizzo. Ma come ogni fenomeno che si verifica nel quotidiano, nel presente, adesso, nel marzo 2021, è quasi impossibile da descrivere in maniera analitica. Un po’ come per i meme di internet. Come si può imparare una lingua di cui ancora si sta scrivendo la grammatica? Questo non significa che il nuovo idioma sia inesorabilmente destinato a morire o che nessuno lo parlerà mai fluentemente, significa soltanto che bisogna aspettare ancora un po’.
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Elena Perugi (Carrara, 1993) è un’artista visiva i cui progetti indagano i comportamenti nati dall’interazione con i linguaggi, le immagini e tutte quelle che possono considerarsi forme rappresentative di dinamiche che prevedono, talvolta simultaneamente, sia l’empowerment di chi le produce sia la sua stessa marginalizzazione. Spaziando da rappresentazioni grafiche, performance, installazioni video e produzioni pittorico-scultoree, cerca di evidenziare come la comunicazione, in special modo quella visuale, assuma oggi la dimensione politica di un assedio. Laureata nel 2015 al Politecnico di Milano in Architettura con una tesi sulla progettazione partecipata dello spazio pubblico e il potenziale dell’intervento artistico in contesti di riqualificazione urbana, segue nell’anno accademico 2015-2016 un master in Fine Arts al Chelsea College of Arts di Londra, dove viene approfondita la ricerca sul territorio, affiancandola all’interesse per le arti plastiche e quelle performative. Nel 2016 inizia il biennio specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali alla NABA di Milano, il cui esito finale è la ricerca Memaze, che indaga le declinazioni del linguaggio memetico e le pratiche di contro-visualità ad esso collegate.
A cura di Manuela Piccolo
Instagram: beta.libra.e
Instagram: rapsodia.botanica
Caption
Poopers – edizione limitata di 25 palloncini in lattice, realizzati a seguito del contributo editoriale per il secondo numero della rivista ISIT.magazine – Courtesy foto ISIT.magazine
Still dal video Oltrevita, realizzato per la performance itinerante di Rapsodia Botanica, settembre 2019 – Courtesy foto Elena Perugi
Still lecture audio-visuale Memaze ANACAB – at night al cow are black, marzo 2019 – Courtesy foto Elena Perugi
Still lecture audio-visuale Memaze ANACAB – at night al cow are black, marzo 2019 – Courtesy foto Elena Perugi
Still dal video della performance Aperto, in colloborazione con Sebastiano Lorenzo Pala, giugno 2018 – Courtesy foto Sebastiano Lorenzo Pala e Elena Perugi