Stefano Cavaliero
I am not sure (Will I ever be?), venerdì 8 ottobre 2021
Zone: 3 – Città Studi, Lambrate, Venezia
Muri non del tutto intonacati, cavi scoperti, numeri annotati sulle pareti, niente porte. Entrando negli ambienti di SPACCA STUDIO si ha l’impressione di entrare in un cantiere: l’edificio mette a nudo la sua struttura nel divenire dei lavori in corso, così come lo studio delle cinque artiste rivendica il suo status di spazio di lavoro e di sperimentazione, privilegiando la natura processuale dell’esperienza artistica. In mostra, infatti, non sono presenti soltanto progetti completi e definiti, ma anche lavori che cercano ancora la propria dimensione, in linea con i propositi di Walk-in Studio. Nell’ambito di una ricerca fotografica finalizzata a rompere l’illusione dell’immagine e a svelarne il supporto, Niccolò Quaresima invita nel suo studio altri quattro artisti (Giacomo Colombo, Stefano Conti, Maria Cristina De Paola e Martina Scala) a ragionare sui limiti della fotografia e sul loro superamento. Il confronto con la materia e la tridimensionalità porta inevitabilmente a una pluralità di approcci che, coerentemente con le ricerche dei singoli artisti, apre un amplissimo ventaglio di possibilità, ricoprendo gli aspetti più disparati di questa rinnovata cultura dell’immagine. Le opere vengono apprezzate non solo nelle loro qualità visive, ma anche e soprattutto in quelle tattili, termiche, narrative. Macchie di colore celano il ricordo di una torrida estate milanese, mappata con perizia certosina; la fotografia di un diorama della Grotta dei Cervi questiona la natura documentaristica del mezzo fotografico, proponendo all’ossevatore un paesaggio che si impone come reale senza esserlo; un’ironica analisi delle fake news sui regimi alimentari viene condotta attraverso buste, scontrini e formine per dolci. Persino laddove la fotografia si esprime in una bidimensionalità “classica”, il suo ruolo viene messo in discussione: il referente è frammentato, ripetuto, stravolto, e la forma diventa astrazione. Linguaggi e metodologie si ibridano per trovare una nuova dimensione spaziale, che si immagina vastissima e inesplorata, e SPACCA STUDIO, in quanto laboratorio aperto di sperimentazione, si dimostra il luogo più adatto per portare avanti una ricerca di questo tipo.
SPACCA STUDIO: il laboratorio dimensionale
“Tu risquerais d’ôter le rouge de ma bouche
Je ne touche personne et personne ne me touche
Je ne touche personne et personne ne me touche
Je suis sage comme une image, sage comme une image
Brillante et à la page mais pas pour ton usage”
Così cantava la belga Lio in una nota canzone degli anni Ottanta, mentre metteva del rossetto rosso sulle labbra e sfuggiva alle avances di un uomo ben vestito, che cercava di toccarla senza mai riuscirci. Être sage comme une image è un’espressione francese risalente al XVII secolo che invita i bambini a essere “docili come un’immagine”, quieti e fermi in una posa fuori dal tempo: Lio se ne riappropria e ne fa il proprio ideale di vita. Non vuole essere toccata, né toccare nessuno. Vuole apparire splendida agli occhi di tutti e nulla più, proprio come le copertine patinate dei suoi album preferiti. Rivendica per sé stessa una dimensione di estrema superficialità, che la appiattisce e rende irraggiungibile. Che si tratti forse di un meccanismo di autodifesa, di una strategia consapevole che la protegga dalle attenzioni non richieste degli altri? La bellezza muta e irreale della popstar non ci permette di saperlo. È il 1982, e mentre l’LP Suite Sixtine spopola sul mercato l’artista britannico Victor Burgin manda alle stampe Thinking Photography, una raccolta di saggi che ripensa il mezzo fotografico e sfida l’apparente innocenza dell’immagine. I contributi di –tra gli altri– Umberto Eco, Simon Watney e lo stesso Burgin si propongono come primi passi verso una teoria della fotografia che la consideri non come una tecnica ma come un sistema linguistico che, in quanto tale, va analizzato grammaticalmente e semioticamente. A differenza della critica fotografica che, dice Burgin, non propone argomentazioni ma piuttosto asserzioni, la cui autorevolezza discende direttamente da quella dell’autore, la teoria fotografica vuole costruirsi come studio interdisciplinare, che analizzi l’immagine e il suo funzionamento in relazione al proprio contesto specifico di produzione e di fruizione. Interfacciando studi formali e scienze sociali, si profila l’idea di responsabilità dell’immagine nell’impostazione del nostro rapporto con il reale. Come l’artista spiegherà qualche anno più tardi parlando del suo lavoro fotografico, l’immagine può essere politica per le tematiche che affronta, ma è certamente politica per il suo funzionamento, per il suo inserimento in un sistema che è politico per natura. È il 1982, e mentre la cultura pop produce Sage comme une image, una hit che celebra il divorzio tra immagine e realtà, il fortunato incontro tra intellettuali di diverso background ne sottolinea invece l’aderenza. Si delinea così una tensione tra due modi diversi di rapportarsi all’immagine: uno più spontaneo, ma anche più ingenuo; l’altro meno immediato, ma sicuramente più consapevole.
Nei quarant’anni che ci separano da questi eventi, le questioni appena sollevate sono state elaborate dai più autorevoli teorici. La sola differenza è che, adesso, non sono più loro appannaggio: gli stessi artisti, nei loro lavori, fanno riferimento a questa nuova consapevolezza; le stesse immagini finiscono col mettersi a nudo e svelare i meccanismi dei regimi visuali. La prima apertura al pubblico di SPACCA STUDIO con I’m not sure (will I ever be?) ne è la dimostrazione. La mostra di Niccolò Quaresima e degli artisti che ha invitato nel suo studio (Giacomo Colombo, Stefano Conti, Cristina De Paola e Martina Scala) testimonia una prospettiva ormai fisiologica per chiunque abbia una formazione fotografica. Prescindendo dai dettami dell’autorialità e della verosimiglianza, è la cultura dell’immagine tutta, e non più la sola fotografia, a essere presa in considerazione nei suoi aspetti più disparati. Quando Cristina De Paola fotografa un diorama della Grotta dei Cervi, suggerisce l’impossibilità da parte dell’immagine di rappresentare il reale. Piuttosto, trasmette una visione, una possibilità. La Grotta dei Cervi si trova nei pressi di Otranto, ed è particolarmente importante perché al suo interno sono conservati dei pittogrammi risalenti al neolitico. A causa della fragilità dei graffiti e di un elevato tasso di radioattività, il sito è inaccessibile al pubblico, e chiunque voglia ammirare il celebre “dio che balla” dovrà affidarsi alla documentazione fotografica dei periti o recarsi al Museo Faggiano di Lecce e vederne i diorami. Giocando con la credulità dello spettatore, lo scatto di De Paola prende in giro la pretesa documentaristica del mezzo fotografico: l’immagine del diorama, in quanto rappresentazione di una rappresentazione, è di un grado ancora più lontana dal suo referente, e si scosta sempre di più dalla realtà. Tuttavia, il posizionamento dell’immagine rispetto al soggetto è chiaro all’artista soltanto, e lo spettatore ne è, nella maggior parte dei casi, ignaro, fruendone come di una normale fotografia. L’immagine, per quanto ingannevole e manipolata, entra in un contesto di consumo reale, ponendosi al crocevia tra verità e immaginazione, materia e virtualità. Allo stesso tempo, però, ribadisce una dinamica di potere: impone una prospettiva su chi non ha i mezzi per poter controbattere, e si ritrova a non conoscerne che un primo, superficiale livello di lettura. Marta Scala, nel suo lavoro, ragiona su dinamiche affini. Realizza una scultura e la appiattisce per sempre. Scattandole una fotografia, la sottrae a un piano di realtà per trasporla su un piano virtuale: le sue sembianze sono infinitamente riproducibili, ma allo stesso tempo terribilmente irraggiungibili. Le riassegna, poi, una tridimensionalità palliativa: la fotografia viene stampata su una serie di buste che il pubblico può prendere e portare con sé. La maneggevolezza dell’oggetto d’arte può illudere lo spettatore, che potrebbe credere di avere un qualche tipo di potere sull’immagine. La statua resterà però immobile nella sua gabbia di cartone lucido. Questo espediente risulta particolarmente efficace per parlare, come fa l’artista, delle ossessioni della società contemporanea così come si esprimono sul web, in questo caso delle fake news riguardanti i benefici della vitamina D. Lo slogan “VITAMINE D IS MY FAVOURITE PERSON” campeggia a caratteri cubitali sotto la foto della statua, ed esce dagli spazi espositivi insieme allo spettatore, calandosi con lui nel tessuto urbano. Lo slogan si diffonderà in maniera parassitaria per strade e città, e ancora l’inconsapevole spettatore crederà di avere controllo su di lui in quanto corpo parassitato. Allo stesso modo si muove l’informazione su internet: crediamo di averne controllo in quanto fruitori, ma ne siamo in realtà assoggettati; crediamo di poterne riconoscere le sviste, e invece è la stessa verità a diventare trascurabile, esattamente come accade con la fotografia. Giacomo Colombo e Stefano Conti sono in effetti ben consapevoli della tendenza della verità a diventare trascurabile, e lo esprimono trascurando a loro volta il confine tra realtà e irrealtà. La poetica del primo, infatti, si basa sul rimasticamento delle immagini, le quali vengono manipolate a tal punto da rendere irriconoscibile il referente. Partendo da alcuni scatti fotografici, l’artista ne individua alcuni elementi da deformare, duplicare, sfuocare, frantumare e riassemblare, dando forma a delle composizioni che ammiccano all’astrazione ma che allo stesso tempo lasciano intravedere il referente originario. Nominalmente, gli elementi strutturali dell’immagine sono tutti lì. Ma possiamo ancora dire di trovarci davanti alla foto di un prato, di un volto, di un oggetto? E ha davvero senso chiederselo? La frammentazione che riguarda i lavori di Stefano Conti, invece, è legata a una dimensione di meraviglia archeologica: scenari disparati e allusivi vengono giustapposti senza apparente soluzione di continuità, ed è responsabilità di chi guarda costruire una narrativa che li unisca e renda coerenti. Di nuovo, che la narrativa corrisponda a verità oppure no, è di poco interesse. Come questo, ogni lavoro esposto porta la traccia di una certa consapevolezza delle strategie comunicative utilizzate dalle immagini, ma allo stesso tempo cerca di crearne di nuove, conducendo a soluzioni inedite. Il lavoro Generazione di Città di Niccolò Quaresima fa esattamente questo, e riassume ogni linea di ricerca dello studio. Non solo, come annunciato, cerca di posizionarsi in una zona mediana tra superficie piana e tridimensionalità scultorea, ma crea anche un nuovo canale di fruizione, grazie al quale l’immagine circola in percorsi altri rispetto a quello unicamente visivo. La mappatura di alcune zone della città di Milano è condotta non con il disegno né con la macchina fotografica, ma con la temperatura: l’artista ha “fotografato” la città con un termoscanner, immortalandola in uno stato spazio-temporale definito. L’utilizzo dei colori tipici della comunicazione meteo (sfumature di rosso, giallo e blu) rende immediata la traduzione termica di uno stimolo visivo, e con una strategia sinestetica la canicola estiva sembra quasi essere più tangibile della sua rappresentazione.
Nonostante SPACCA STUDIO si sia presentato, in occasione di I’m not sure (will I ever be?), come uno spazio di ricerca che vuole individuare e superare i limiti fisici dell’immagine fotografica, indagando l’inesplorato tra bidimensionalità e tridimensionalità, ha dimostrato interessi molto più ampi: il lavoro, spesso ironico e giocoso, condotto sui canali di circolazione delle immagini, sul loro potere politico e sui regimi espressivi che instaurano, fa di SPACCA STUDIO un laboratorio sperimentale che, con rigore scientifico ed estro creativo, si occupa di cultura visuale nel suo complesso.
Stefano Cavaliero
Instagram: spacca_studio
Instagram: walkinstudiospazi – www.walkinstudio.it
Caption
I’m not sure (will I ever be?) – Installation view, SPACCA STUDIO, Milano, 2021 – Giacomo courtesy gli artisti, ph. Giacomo Colombo