HYBRID ARCHIPELAGO » Intervista a Giulia Nelli

Hybrid Archipelago fornisce una mappatura provvisoria, consentendo un confronto tra le diverse pratiche artistiche sviluppate dalle giovani generazioni italiane all’estero. La rubrica cerca di trarre alcune conclusioni che potrebbero essere rilevanti per la scena artistica contemporanea muovendosi nelle riflessioni degli artisti, tra ricerche spesso parallele ai luoghi dove hanno deciso di trasferirsi sviluppando una mappa in divenire nella quale confluiscono i saperi.

Questo mese mi confronto con l’artista Giulia Nelli. Il suo lavoro è improntato sul complesso intreccio di legami che vanno a costituire l’identità di un essere umano, che si sviluppano dalle relazioni con il territorio di origine e con le persone che compongono le comunità di riferimento. Ha ricercato una forma espressiva personale e drammatica, dotando le sue opere di una dimensione scultorea, attraverso rilievi e giochi di vuoti e di pieni.Nata a Legnano nel 1992, si è laureata presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e ha conseguito il Master IDEA in Exhibition Design al Politecnico di Milano.
Nel 2022 ha vinto la nona edizione del Premio Cramu, ha partecipato alla Residenza d’artista presso Villa Greppi e realizzato una mostra personale presso Fondazione Vittorio Leonesio. Sempre nel 2022 ha partecipato al progetto WE ARE THE FLOOD Liquid exhibition #2 presso lo Spazio Archeologico Sotterraneo di Trento, ha esposto alla mostra Texture of Resistance, da COSMO a Trastevere ed è stata pubblicata da Tipografia Valdostana la sua prima monografia.


Quali sono state le artiste che ti hanno più influenzato all’inizio della tua pratica?

Sono diversi gli artisti che hanno influenzato il mio percorso artistico, ma tra questi le donne non sono state molte, forse perché nei tradizionali programmi di studio le ricerche svolte dalle artiste hanno finora avuto un ruolo secondario. In particolare, hanno esercitato su di me un forte impatto emotivo le opere di Jenny Saville, mentre il lavoro di Maria Lai ha accresciuto la mia consapevolezza dell’importanza del messaggio che può essere trasmesso attraverso l’uso di materiali tessili che forse più di altri portano con sé i valori e la sensibilità del mondo femminile.

Quanto i tuoi primi esperimenti sulle forme e i materiali sono stati fondamentali?

Nei primi anni ho sperimentato molto con diverse tecniche e materiali, dai foil alle colle viniliche, fino a quando ho incontrato casualmente il collant e l’ho scelto come materiale principale perché, grazie alla sua estrema duttilità, mi ha consentito di esprimere al meglio la mia poetica. Tutt’ora, comunque, l’uso dei collant si affianca all’impiego di tecniche miste, che esaltano la forza espressiva dei collant stessi.

Come hai iniziato a lavorare con i collant?

In un primo momento sono stata attratta dalla forma delle smagliature di alcuni collant usati, ormai da gettare via: ho notato che sovrapponendo i collant bucati a determinate superfici si creava uno straordinario gioco di vuoti e di pieni e un movimento di forme leggero e allo stesso tempo molto intenso. Successivamente ho cominciato a strappare il tessuto per ridurlo al suo elemento essenziale, il filo, e ho capito che il gesto dello strappo era per me in qualche modo liberatorio, mi consentiva di riflettere sul mio stato d’animo del momento e di concentrarmi sul messaggio che volevo esprimere. Ho imparato a calibrare la forza, a controllare la gestualità e a lavorare un materiale che, per quanto molto duttile, risulta anche molto delicato e imprevedibile se la smagliatura non viene gestita bene. Negli ultimi lavori sto utilizzando di meno il gesto dello strappo e dello smembramento e di più l’assemblamento di pezzi diversi lasciati integri nella loro fisicità, per dare maggiore matericità al lavoro. I collant sono un materiale talmente duttile ed elastico che non ne ho colte ancora tutte le possibilità; nel prossimo futuro penso che studierò maggiormente le capacità espressive che possono offrire gli accostamenti di collant con gradi diversi di trasparenza allo scopo di giocare di più con le ombre che un materiale così elegante e armonioso riesce a creare.



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Come si può essere artiste, e attiviste, con una ferma attenzione per la biodiversità e la conservazione?

Non mi ritengo un’attivista, perché il mio lavoro non è esclusivamente incentrato a difesa dell’ambiente. Certamente il tema della sostenibilità ambientale mi interessa. Ho iniziato a trattarne i risvolti sociali dal punto di vista dell’individuo che si rapporta al luogo di origine e al suo paesaggio in virtù del complesso intreccio di legami che vanno a costituire la sua identità, e che si sviluppano dalle relazioni con il territorio e con le persone che compongono la comunità di riferimento. Del resto, solo se ogni persona coglie da dentro il valore del legame con la terra e dei rapporti di cooperazione con gli altri è possibile effettuare un vero cambiamento di prospettiva su nuove modalità di sviluppo economico e sociale.

C’è una forte riscoperta, e interesse, per l’arte morbida. Da Cecilia Vicuña, a Magdalena Abakanowicz, solo per citarne alcune tra le più seguite e premiate. Cosa ne pensi? Quanto il sistema dell’arte italiano è interessato e sostiene la ricerca relativa al tessile?

Le mie opere sono realizzate utilizzando prevalentemente, ma non esclusivamente, un materiale tessile e pertanto possono essere considerate facenti parte della Fiber Art e allo stesso tempo essere incluse in un ambito più ampio. Trovo interessante il lavoro degli artisti di Fiber Art e ritengo che troppo spesso siano confinati in un genere di nicchia, che non rende giustizia della bellezza e dell’impegno, anche sociale, delle loro opere. Sicuramente la curatrice Barbara Pavan sta contribuendo alla promozione e alla divulgazione della Fiber Art italiana e internazionale quale linguaggio dell’arte nell’ambito del contemporaneo. Altrettanto importante è il lavoro di ArteMorbida magazine specializzato in Textile Arts, attivo nella diffusione e nell’approfondimento della cultura legata al medium tessile nell’arte.

Hai realizzato, per la mostra Texture of Resistance, Mossi da forze contrastanti (2022), una installazione site-specific di notevole impatto estetico, monumentale, composta da collant neri di diverse densità di Elly Calze. Come sei riuscita a dialogare con lo spazio?

Le installazioni site-specific nascono dallo studio dello spazio che le ospita. In particolare, in Mossi da forze contrastanti ho cercato di sfruttare la presenza di un’ampia colonna per creare l’ancoraggio dell’installazione e di due aperture di accesso alla sala per rendere visibile l’opera da due prospettive diverse e accentuare così la tensione interna ottenuta attraverso i frammenti di collant spinti verso destra e verso sinistra, e in avanti verso il pubblico in entrata.

L’ampiezza di scala diventa estremamente importante?

Le installazioni sono di forte impatto anche grazie alla maggiore matericità che assume il lavoro e mi consentono, oltre che di avere un’ampia visibilità, di far interagire i visitatori con l’opera stessa, facendoli partecipi di un’esperienza il più possibile immersiva.

Puoi descrivere il tuo processo creativo?

Nelle opere bidimensionali, di solito il tessuto del collant viene smembrato e strappato per ridurlo al suo elemento essenziale, il filo.
Nelle installazioni, invece, il lavoro è più materico in quanto utilizzo pezzi di collant lasciati integri nella loro fisicità per dare maggiore matericità al lavoro e assemblati in modo da creare nello spazio un gioco di trasparenze, dato dall’accostamento di collant di den differenti allo scopo anche di giocare di più con le ombre che un materiale così elegante e armonioso riesce a creare.

Qual è il suo significato? Anche in rapporto con il concetto della mostra, che riprende un tema mitologico, quasi in un dialogo spirituale e poetico con la ricerca dell’artista friulana Maria Elisa D’Andrea.

L’installazione Mossi da forze contrastanti racconta la continua tensione dell’io tra dentro e fuori di sé, il contrasto tra la drammaticità di tanti legami spezzati e la conseguente sensazione di solitudine e il continuo tentativo dell’individuo di superare tale sensazione costruendo nuove relazioni, più o meno solide e vere.
La mia installazione, pur utilizzando un materiale moderno e forme contemporanee, porta in sé la memoria di antichi gesti: fare, disfare, annodare e riannodare è la storia e l’immagine della vita, è l’abilità che permette alle donne delle mitologie di tutte le popolazioni antiche di ricongiungere in un’unica trama emozioni, parole e silenzi, storie e legami, memorie e speranze per il futuro.

A cura di Camilla Boemio


Instagram: nelli.giulia


Caption


Mossi da forze contrastanti, installazione site-specific composta da collant nero di diverse densità, Texture of Resistance, COSMO, Roma, 2022 – Courtesy l’artista, ph Elisabetta A.Villa.