Durante le giornate di ArteFiera 2018, nel programma ART CITY, è stata inaugurata l’opera di CT (Matteo Ceretto Castigliano) alla Velostazione Dynamo di Bologna, terzo lavoro per B-Wall – format che invita un artista, con cadenza annuale, a realizzare un’opera murale nella sala all’ingresso della Velostazione. B-Wall è nato come appendice del progetto Frontier – La linea dello stile – a cura di Fabiola Naldi e Claudio Musso – e ha visto la partecipazione di Luca Barcellona nel 2016 e Aris nel 2017.
CT – Matteo Ceretto Castigliano (Torino, 1985) fin dai primi anni di attività, ha dedicato la sua ricerca alle evoluzioni e ai cambiamenti del rapporto tra dipinto murale e paesaggi marginali. Influenzato dalla storia della grafica e dalla cultura del Writing, l’interesse per il lettering è diventato un espediente per studiare la forma fino al punto di raggiungere gli elementi essenziali della lettera.
Il carattere diviene a tutti gli effetti una forma pura, struttura elementare, soggetto della composizione e allo stesso tempo elemento in grado di influenzarla. Le opere di CT sono basate su linee rigide e stesure monocrome, riescono a entrare spesso in dialogo con i luoghi in cui vengono realizzate. Le principali ispirazioni per la progettazione dell’opera murale alla Velostazione sono state: la Basilica di San Petronio, gli L-Beams, il Panopticon, la Countach, il Multiverso, la Turbina Pelton e le eliche coassiali.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra gli esordi e oggi?
Ho iniziato da ragazzino disegnando bozzetti per graffiti che non ho mai dipinto. Mi divertivo a disegnare e stilizzare le lettere, a immaginare la loro struttura, nonostante non avessi nozioni tipografiche.
Le lettere sono diventate un’espediente per studiare la forma e metterla in relazione con il contesto.
La prima mostra che ha portato il mio lavoro in uno spazio espositivo in modo rigoroso è stata, nel 2008, Operazione Axum alla Cripta747 di Torino.
Non riscontro grandi differenze tra gli esordi e oggi: l’impegno da parte mia è lo stesso e le dinamiche nel mondo dell’arte anche.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Come accennato prima, per molti anni la tematica dei miei lavori è stata l’evoluzione delle lettere fino ad approdare a composizioni astratte dipinte e inserite in contesti prevalentemente post-industriali.
Oggi, in galleria, intendo approfondire gli stimoli provenienti da quei luoghi utilizzandoli come canali per mettere in relazione il passato e il presente, la storia e le dinamiche contemporanee.
Sono interessato a enfatizzare gli aspetti sociologici, politici e, ovviamente, quelli architettonici e puramente formali. La storia di un luogo è sempre fonte di ispirazione ma la stessa sensibilità la posso impiegare per ricerche differenti: una volta determinato un metodo, questo è applicabile a molteplici situazioni, ottenendo di volta in volta risultati eterogenei fra loro.
Il mio ultimo progetto Orizzonte artificiale è una personale alla galleria CRAC di Terni. Insieme alla gallerista Chiara Ronchini abbiamo lavorato per sintetizzare e rendere esplicite le analogie e le differenze tra la città di Torino e di Terni. Volevo creare dei pezzi, delle opere, che fossero un dispositivo in grado di decodificare questi dati oggettivi. Abbiamo così contattato artigiani locali che fossero in grado di svolgere lavori di carpenteria e aziende di verniciatura per la finitura dei pezzi in metallo.
A Torino ho progettato delle forme modulari e trovato guarnizioni in gomma, insieme a vecchi bulloni, per l’assemblaggio delle parti. La produzione stessa delle opere si è trasformata in una performance involontaria e l’assemblaggio e finitura dei pezzi, il momento di incontro tra le storie dei due territori. Insieme ai lavori in metallo, ho riproposto una foto d’archivio in grande formato trovata in un deposito dismesso che raffigura il momento in cui due travi di acciaio vengono poggiate per la costruzione di un ponte. Ne è scaturito un dialogo silenzioso tra la città dell’automobile e la città dell’acciaio.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Mi rapporto in maniera discreta.
Non la vivo e non la conosco come forse dovrei o meglio, vorrei. Piuttosto la immagino, la idealizzo e questo processo mentale mi permette di enfatizzare ciò che reputo appassionante ed escludere ciò che a mio avviso non lo è. Conosco meglio le strade delle zone industriali di quelle del centro e ho una certa affinità con i boschi della collina e meno con i palazzi barocchi. Torino è una città bellissima e allo stesso tempo difficile: l’identità forte dei suoi palazzi si contrappone a un identità vaga e variegata dei suoi abitanti. Quando sono a Torino vorrei essere altrove ma dopo lunghi periodi fuori son felice di tornare a casa.

Qual è il tuo pensiero in merito al writing e alla street art oggi?
Il writing continua a emozionarmi. Apprezzo i graffiti nonostante siano inutili e volgari: vedere una tag, un throw-up o un un pannello suscita in me un piacevole fastidio; è parte del mio passato e nutro profondo rispetto per questa disciplina.
Ovviamente le cose che oggi mi appassionano sono altre ma una non esclude l’altra.
La street-art oggi non so bene cosa sia: ho smesso di approfondire l’argomento perché non trovo più affinità estetiche e concettuali malgrado il mio lavoro sia riconosciuto come parte di questo ambito.
Gli artisti che apprezzavo dieci anni fa sono gli stessi che ammiro oggi e dipingere con gli amici rimane una delle cose più autentiche che possa fare.
Che domanda vorresti che ti facessi?
È tua quella Lamborghini ?
Intervista a cura di Federica Fiumelli