Massimo Dalla Pola (Milano 1971), una delle conoscenze che più apprezzo e di cui faccio tesoro nella mia residenza a Milano. L’ho conosciuto nel 2011 in occasione di “Sto* Disegnando!!!” a Circoloquadro, spazio indipendente milanese con cui collabora curando la veste grafica delle pubblicazioni. Un Artista fuori dagli schemi, fuori dalle dinamiche idiote del sistemino, quello piccolino, che si crede grande, ma che è provincia nella metropoli. Burbero, non gli piace niente. È uno “Spinoza”, ama come me il singolo di Calcutta, “Cosa mi manchi a fare”, e spesso lo balliamo nei post serata in galleria a Circoloquadro. Artista vero, mente al di sopra, lavora a progetti spesso legati alla politica attraverso l’architettura, ma è solo una parte del suo fare e del suo tanto sapere.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Ho iniziato tra la metà e la fine degli anni Novanta, dopo la laurea in Storia dell’Arte alla Statale di Milano.
Potrei scrivere che erano tempi meravigliosi, in cui l’arte era sugli scudi e c’era molto fermento, ma non è vero, sarebbe solo una patetica e retorica virata nostalgica. Avvertivo, questo sì, una frizzante e stimolante confusione semiotica ma nulla di strutturale che fosse il preludio a qualcosa di rilevante: e infatti poi sono arrivati i Duemila. Comunque, per mantenermi, lavoravo in galleria (prima da Pasquale Leccese, poi da Luciano Inga-Pin) e lì ho visto passare un po’ di tutto, in un periodo con regole formali molto fluide (non solo nell’arte) che permettevano la coesistenza di linguaggi anche antitetici: le sopravvivenze poveriste/concettuali, la pittura che aveva ripreso piede con suggestioni figurative legate a stilemi più tradizionali, il ritorno di un’arte performativa violenta sulla scorta delle esperienze viennesi degli anni Sessanta unitamente alle prime applicazioni tecnologiche del digitale, gli ultimi sussulti della fotografia così come l’avevamo sempre concepita: in pellicola. L’arte mi aveva rapito ma non accecato: l’Italia era un verminaio brulicante, l’Europa bruciava e preferivo confrontarmi sulla realtà più che sulle diatribe formali tra “scuole di pensiero” (cosa che faccio ancora oggi) ed è per questo, anche, che non ho mai discriminato alcun mezzo espressivo, considerando, invece, ognuno di essi un possibile strumento di concretizzazione del binomio pensiero/emozione.
Insomma, rispetto a oggi c’erano più idee nell’aria, c’era meno conformismo – anche formale – e meno professionalità, forse, una maggiore ingenuità o semplicemente ero più giovane.
Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
Parlo dell’Uomo ma lo faccio non raffigurandolo, preferisco analizzare tutto quello che gli sta attorno (paesaggio, natura, storia) e che necessariamente lo riguarda. Inizio sempre dal contenuto (la storia, l’oggetto, la situazione) e cerco di esprimerlo attraverso il mezzo (pittorico, fotografico, digitale) espressivo e tecnico che reputo più adatto a conferire al lavoro una leggibilità immediata, che non abbia bisogno se non di indicazioni sommarie per essere spiegato. Lavoro per cicli, con una serialità rigorosa e con riferimenti alle tecniche delle arti cosiddette minori (disegni, bassorilievi, acquerelli, icone e vetrate) riviste in chiave e materiali attuali.
Per quest’anno (un periodo di inattività forzata) ho in programma due mostre collettive e, per l’inizio del prossimo anno, una personale in uno spazio pubblico.

Come ti rapporti con la città in cui vivi?
Ho con Milano un rapporto conflittuale, frutto della frequentazione professionale assidua di una città in cui non sono nato e in cui ho ricominciato ad abitare da poco. Porto con me una sensazione di alterità rispetto al tessuto socio-culturale meneghino medio, ma riconosco anche le opportunità di esperire un’infinita varietà umana che le grandi città offrono.
Sono esteticamente molto affezionato a luoghi e costruzioni: l’astronave-distributore di Bacciocchi in piazzale Accursio, il ponticello giallo e arancione di via Palizzi, il palazzo Montedoria, maiolicato in verde, di Gio Ponti, il cavalcavia di viale Monte Ceneri, i lampioni spaziali di viale Enrico Fermi, la Torre Velasca, l’aggetto di Moretti su Corso Italia, la luce che illumina il Duomo visto da corso Europa, che pare Gotham City, il complesso saviniesco della Borsa, San Maurizio in corso Magenta, i chiostri della Statale e molti altri.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
L’ho frequentato solo in maniera tangenziale (se per “sistema” intendi l’attività economico-culturale che si poggia sulla “catena” artista-curatore-gallerista-collezionista) ma ne penso quello che penso di ogni attività umana nell’era democratica del capitalismo spinto: quando la prevalenza dell’aspetto economico su quello umano diventa schiacciante, aumenta la quantità e si abbassa la qualità e per qualità intendo una commistione di bontà estetico/formale e forza contenutistica. Avere più soldi non significa fare cose migliori, spesso vuol dire solo poter fare con più facilità e con una maggior possibilità di strumenti, prodotti esteticamente, forse, più appetibili. Questo per l’artista.
Di quello che riguarda gli altri anelli, non saprei; ho visto condotte, atteggiamenti e strategie molto diverse, incarnate da individui collocabili in un ventaglio di definizioni che vanno dal gentiluomo al farabutto, passando per l’ingenuo e il paraculo. Ma non sono mai stato uno stratega e nemmeno un arrampicatore per cui, davvero, questo è un mondo che conosco poco e che non so come potrebbe evolversi, visti anche gli stravolgimenti socio-economici in atto.
Che domanda vorresti ti facessi?
Parliamo di pallacanestro? Ma in questo caso non basterebbero dei giorni per cui ti potrei dire qual è il mio rapporto con la morte: ci penso pochissimo, solo qualche ora al giorno.
Intervista a cura di Michael Rotondi