Arrivati al penultimo appuntamento di questo primo ciclo di Emporio Centrale – che nel finale di stagione vedrà riuniti tutti i progetti in un’unica sede espositiva a Milano – presentiamo oggi l’intervista ad Arda Aldemir, realizzata in occasione di Someone Talked!, operazione site-specific a cura di Yuliya Say, fruibile fino al 22 ottobre 2021 presso La Redazione di Forme Uniche a Milano. Nel terzo episodio lo spazio espositivo muta ancora una volta, grazie all’identità dei nuovi lavori eseguiti dall’artista di origine turca.
Quelle di Arda sono opere agili, immediate e dinamiche, sono pamphlet visivi di carattere surreale, disegnati su carta, che riprendono il personaggio immaginario di Someone Talked!, pensato per uno dei tanti manifesti di propaganda degli Stati Uniti nel 1942. Concettualmente attuali, le opere di Arda Aldemir scrutano il linguaggio contemporaneo nelle declinazioni comunicative della politica, dei media e della società, avviando una riflessione critica sulla forza delle parole e delle immagini.
Scrive Yuliya Say nel testo critico: “I suoi manifesti trattano problemi del linguaggio acquisito dai media e della catastrofica mancanza di tempo per pensare. Per esempio in “What To Know About…” la fonte è una vera notizia nella quale viene segnalato cosa si deve sapere sugli effetti del Covid e cosa si deve fare. Anche nei giornali più affidabili e grandi i titoli spesso assumono quell’atteggiamento che vuole indicare esattamente cosa si deve sapere e cosa si deve fare“.
A Milano parte della tua ricerca diviene una riflessione critica sui temi dell’informazione e del mondo mediatico. Da artista e attento osservatore di tali dinamiche, in tempi di pandemia come è cambiato il ruolo della comunicazione e quale è il rapporto di quest’ultima con l’opera d’arte?
I primi mesi di pandemia per me erano un lungo periodo in cui non ho prodotto niente. Questo perché alla vita quotidiana mancavano i suoi contrasti, che nel mio caso portano alla necessità di creare, di far uscire in qualche modo il materiale accumulato. Nello stesso periodo l’informazione arrivava in modo eccessivo e passivo, non si capiva più cosa era reale e cosa era inventato. La fiducia in qualsiasi fonte di comunicazione era distrutta. Probabilmente proprio questo ha attirato il mio interesse sul mondo dell’informazione che si è rivelato un mondo manipolatorio, simile alla buona vecchia propaganda. La ricerca per questo progetto mi ha portato alla conclusione che alla fine dei conti qualsiasi comunicazione è propaganda, in relazione a qualcosa o qualcuno. Oggi potrebbe essere più potente, cambiare la facciata secondo il bersaglio soddisfacendo i bisogni dello stesso scopo. Spogliando la natura del messaggio si dissolvono anche le linee delle ideologie, un po’ come la metafora del ferro di cavallo, solo che ogni informazione è la punta dell’altra. Ho cercato di immaginare un modo simile di svestimento anche per i miei manifesti con i loro messaggi anti-propaganda.
Rispetto alle tue opere ed esposizioni precedenti, in Someone Talked! come arrivi alla formalizzazione pratica e concettuale di questi lavori?
In realtà, l’occasione del lavoro su Someone Talked! è stata una delle poche volte in cui ho pianificato il concetto e la composizione di ogni singola opera. Solitamente la formalizzazione delle mie realizzazioni avviene iniziando con l’espressione improvvisata e poi con un processo di individuazione delle potenziali strade. Valorizzo errori e coincidenze, fino ad arrivare a una scoperta organica in cui escono fuori preconcetti ed esperienza della formalizzazione stessa. Nel progetto Someone Talked! ho utilizzato un approccio da product design che segue le fasi di esplorazione, definizione, sviluppo e consegna, nelle quali esistono dei momenti di prove e feedback. Per spiegare in dettaglio la parte dell’esplorazione, sono partito dai mezzi di manipolazione di oggi, in particolare i social media, fino ad arrivare ai prodotti più noti della propaganda della prima metà del Novecento. Ciò che mi ha fatto scoprire tante connessioni è la natura immutabile della manipolazione. Insomma, è stato un percorso più simile a quello di un grafico che si trova in relazione con l’ambiente in cui venivano creati i veri manifesti di propaganda. Possiamo dire che per innescare questo tipo di lavoro mi sono messo il cappello di un grafico sopra la mente di un artista.
A livello teorico, quali sono i testi e gli artisti a cui ti sei maggiormente interessato negli anni di formazione?
Non ho avuto una formazione artistica accademica, ho sempre provato a imparare da solo, quindi possiamo dire che sono ancora nella fase formativa. Le due cose che mi hanno aiutato ad ampliare di più la visione sono state le visite alle mostre in diversi paesi e i libri sulla filosofia e storia dell’arte. Potrei elencare degli artisti come Twombly, Polke, Rauschenberg, Klint, Duchamp, Alechinsky, Matisse, Warhol e artisti del mio paese come Eyuboglu, Dogancay e Nuri Iyem. Oltre ai testi su questi artisti, sulle teorie e correnti associate a loro, il libro che ha distrutto le mie idee false sull’arte e ha risposto a tante domande è stato Arte Come Esperienza di John Dewey. Nonostante sia stato scritto negli anni Trenta la sua visione è veramente attuale. Ovviamente queste visite e letture non sono state ritrasmesse nelle opere direttamente. Personalmente non studio i lavori degli artisti a livello pratico, però credo che tutta questa esperienze ha influenzato la mia percezione e interpretazione della realtà.
Da Istanbul a Torino, come cambia il mondo dell’arte tra queste due città e quali sono le realtà dinamiche con le quali ti piacerebbe confrontarti?
Da quando ho cominciato l’università a 19 anni, ho vissuto prevalentemente a Torino, quindi la mia esperienza complessiva della scena artistica di Istanbul è minore rispetto a quella di Torino. Però, sia prima di essermi trasferito sia durante alcune visite occasionali a casa ho sempre incontrato una città piena di eventi artistici e di musei e gallerie conosciute in tutto il mondo. A parte le grandi realtà come Istanbul Modern, Museo di Pera e Contemporary Istanbul, c’è una scena abbastanza vivace degli artisti della cultura DIY. Loro valorizzano e trasformano nella vera e propria casa alcuni quartieri in abbandono, come per esempio Karaköy, Galata, Cihangir e Moda. A differenza degli artisti giovani che vedo a Torino, queste persone hanno una relazione meno organizzata ma più diretta con la città; con il suo caos, le sue disuguaglianze, la sua rivolta e, non poco importante, con il suo linguaggio visivo, che spesso assomiglia a una concentrazione metropolitana kitsch di una città senza e con troppe identità. Anch’io, molte volte, cerco di interagire con Torino in un modo simile; potrebbe diventare un lavoro più fertile se si facesse in modo collettivo.
Dopo Miart, e nell’attesa di Artissima, sembra che tutto sia ripreso nel migliore dei modi. Cosa ti aspetti da questo periodo e quali sono i tuoi prossimi progetti?
Parteciperò con tre lavori ad AmbientArti, mostra del collettivo artistico Crisalide ad Alba, in cui viene esaminato il tema dell’inquinamento dell’ambiente da parte dell’uomo. Al momento non ho altri progetti espositivi, però ho in mente un intervento di arte urbana. Vorrei creare una serie di lavori posizionati in vari punti della città, una cosa mai fatta.
A cura di Giuseppe Arnesano
Arda Aldemir
Someone Talked!
a cura di Yuliya Say
14 settembre – 22 ottobre 2021
La Redazione, Milano
www.formeuniche.org/emporio-centrale/
Caption
Emporio Centrale, Someone Talked! | Arda Aldemir – Exhibition view, La Redazione, Milano, 2021 – Courtesy l’artista e Forme Uniche