Drawing as Fighting, intervista a Marco Bongiorni

Drawing as Fighting di Marco Bongiorni è un libro che raccoglie anni di vissuto artistico e sportivo in un unico volume. Il lavoro come artista e la passione per il pugilato si mischiano in un prodotto ibrido, che nasce come training book ma che si sviluppa come la sintesi di una ricerca appassionata tra il disegno e il pugilato, in un processo che ha cercato di contaminare il primo con il meglio del secondo. Abbiamo avuto la fortuna di parlarne con l’autore, e il risultato è una chiacchierata che parla di boxe, di arte, e di tutto ciò che sta dietro alla realizzazione del libro.


Quando ho aperto Drawing as Fighting ho subito pensato a Calvino e le sue Lezioni Americane: sei proposte per il nuovo millennio. È stato effettivamente un riferimento per te quando hai iniziato a strutturare il libro? come ti sei approcciato alla scrittura? Parliamo di un prodotto ibrido, che non è solo un training book ma per certi versi un diario, per altri un compendio di tuoi lavori, per altri ancora quasi un libro di narrativa.

Ti ringrazio per il paragone, ma onestamente non posso dire di aver guardato quel testo per la stesura del mio. Quando ho immaginato il libro avevo in mente cose più specifiche sul disegno: dalle “Sei lezioni” di Kentridge al testo “Sul Disegnare” di Berger, fino al tradizionale “Corso di disegno anatomico” di Bargue e Gerome; non tanto come modelli, ma per mirare al loro peso specifico sull’argomento. Disegno e penso al disegno tutti i giorni da tanto tempo ormai, volevo un testo che fosse vero e serio per i disegnatori ma che interessasse anche chi non ha mai preso in mano una matita.

Rimanendo sul tema di Calvino, tu hai usato delle parole per definire dei contenitori di macro argomenti. Una parola che però manca è ‘talento’, termine chiave che viene utilizzato da coloro che non disegnano come “scusa” per non provare. Che rapporto hai con questo termine?

Non so dirti se questa parola sarebbe potuta stare nel libro senza il rischio di cadere nella retorica del “duro lavoro” o, viceversa, in quella del “talento dalla nascita”. Mi fai venire in mente le parole di Degas riportate da Daniel Hakèvy: il pittore, durante una cena, ribatte ad un Alto generale del Genio che discorre sull’importanza di studio, strategia e pianificazione accurata in pittura: “Mio Dio Signore (…) vi è un mezzo molto semplice per fare a meno di tutte queste cose, un mezzo davvero semplice e curioso: avere talento”. Certo, essere Degas aiuta a poterlo dire senza imbarazzarsi.

Se dovessi definire il tuo libro con una parola userei “confronto”. Si può dire che non esiste disegno senza confronto ? che poi è una sfida al limite mentale e fisico.

Cosi mi costringi a cercare l’etimologia del termine in rete. Leggo del latino ‘frons/fronte’ e quindi fronteggiare, stare davanti. Non credo sia necessariamente una questione di lotta ma piuttosto di avere il coraggio di posizionarsi in una relazione con l’altro, sia esso un avversario che veste i guantoni o una modella che vuoi ritrarre. Da qui il passaggio al concetto di limite è facile e inevitabile. Nel libro parlo del limite come vero motore per azionare i processi di lavoro. Per me il limite non è mai un problema e certamente esiste anche se, negli anni Novanta, Patrick de Gayardon ci ha fatto sognare il contrario. L’epica sportiva del superamento dei limiti mi trova in realtà un po’ scettico perché è evidente che è grazie a essi che l’azione può ripetersi, diversificarsi e quindi rinnovarsi. Il pugilato, senza le corde del ring, sarebbe ancora guerra.



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Quest’anno ho letto un’intervista di un giornalista di settore che spiegava come il racconto sportivo non avesse bisogno di essere elevato, è già forte di per sè. La boxe è lo sport in cui la componente epica è forse più forte: come ti sei rapportato alla narrazione che circonda il pugilato?

Hai ragione, il pugilato si racconta da solo. Basta guardare il cinema per capire quanto sia vero. Ci sono molti brutti film sulla boxe che però non sono poi cosi brutti. Funzionano certamente meglio di altri brutti film che non parlano di boxe. Evito una risposta generica e ti dico alcuni dei titoli che ho letto prima e durante la stesura del manoscritto. Roba che in qualche modo è passata dentro il mio libro: Storia della boxe di K. Boddy, Sulla boxe di J.C. Oates, Storia dei pesi massimi di N. Fleischer, Tutto Franchini, La Sfida di N.Mailer, Anima e corpo di L.Wacquant, la biografia di Muhammad Ali di J. Eig, quella di Mike Tyson (scritta da Mike Tyson) e quella di Giancarlo Garzelli scritta da sua figlia Gianna. Ti segnalo invece un film che a mio parere ha alcune delle scene di pugilato più credibili: The Boxer di Jim Sheridan, con Daniel Day Lewis.

La fisicità e l’utilizzo del corpo è un elemento chiave tanto nella boxe quanto nel disegno, e tu nel libro lo sottolinei molto. Credi si sottovaluti il fatto che disegnare sia un’azione complessa che riguarda l’intero corpo? perché raccontare la fisicità del gesto è essenziale?

Credo sia impossibile pensare il disegno svincolato dai mezzi con cui viene prodotto. Questo è vero quando a disegnare è una macchina, un robot o un intelligenza artificiale e penso valga lo stesso se a disegnare è il corpo. Matthew Barney ce l’ha insegnato con i suoi drawing restreint, e prima di lui gli espressionisti e le avanguardie.
Non penso la questione possa essere ridotta semplicemente a un piano meccanico perché il nostro corpo è un tutt’uno con i sistema nervoso centrale. Le nostre percezioni e i flussi cognitivi non si fermano durante il disegno ma si muovono secondo direttive che sono suggerite anche dal corpo. Lo spiegano bene le parole di Henri Focillon quando dice che a volte la mano somiglia più a un organo pensante. Ogni disegno è il risultato di un processo ma anche un pretesto per re-immaginare quello stesso processo. Per come la vedo io, nelle sottili linee dei fiori di Ellsworth Kelly c’è tanto corpo quanto su una grande tela di Kline.

Mi ha colpito molto una tua frase, che vorrei commentassi: “la mia attitudine nel fare arte è l’unica cosa che conosco. Si può chiamare stile, inclinazione o intuito, ma è qualcosa che ha a che fare con una strategia di sopravvivenza che con un piano di azione, più simile alla paura che alla ragione, più sconfitta che ideale”.

Questo perché il mio approccio al lavoro è quasi da vigliacco. Penso alle mie opere come delle crepe che minano la solidità del modello razionalizzato con cui ci imponiamo di leggere il mondo, ma più che atti di sabotaggio mi sembrano piccoli collassi.
Io questo mondo l’ho sempre capito poco; l’ho invece “sentito” molto e in quest’ottica l’attitudine ti aiuta a non soccombere. Anche nel lavoro di altri artisti la ricerco, e quando la trovo mi sento meno solo.

Puoi raccontarmi lo sviluppo dal vivo del progetto, elemento tanto importante quanto l’aspetto editoriale.

Il progetto Drawing As Fighting nasce in palestra e nel mio studio, come un insieme di esercizi sperimentali per sviluppare alcuni aspetti del disegno contemporaneo. Questi esercizi sono diventati un workshop che abbiamo svolto in diverse occasioni, fino ad arrivare al Palais de Tokyo di Parigi, poi si sono declinati in un libro grazie al prezioso aiuto di Milieu Edizioni e Alberto Bettinetti.
Il naturale sviluppo di DAF è un ibrido tra teoria e pratica, testi ed esercizi, letture e workshop.
Stiamo pianificando il lavoro dei prossimi mesi e da gennaio ci saranno delle novità che potrete seguire sul profilo Instagram del progetto.

A cura di Marco Bianchessi


Instagram: drawingasfighting

www.milieuedizioni.it


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Drawing as Fighting – Courtesy Marco Bongiorni e Milieu Edizioni