Questa breve conversazione con Enej Gala segue la lettura critica, a cura di Fabiola Naldi, di un’opera dell’artista – Piedi bocciati – esposta presso Localedue a Bologna nell’ambito di MONO. Il progetto vuole promuovere un tentativo di approccio diretto e non mediato all’oggetto artistico, che viene presentato senza apparati descrittivi o informazioni sulla sua genesi e significato.
Enej Gala (Ljubljana, 1990) vive e lavora tra Londra e Nova Gorica. Laureato in pittura all’Accademia di belle Arti di Venezia, prende parte al Royal Academy Schools Postgraduate Programme a Londra 2019-2022. Tra le ultime mostre: Mono – Piedi bocciati, Localedue, Bologna 2019; Appocundria, Casa Testori, Milano 2019; Materia che avanza, Lanificio Paoletti, Follina 2019; The natural, the (un)cleansed & the foreign, Station Gallery, Beirut 2019 e una personale alla Loggia Gallery Koper nel 2019.
Vorrei prendere spunto – per parlare di pittura – dall’opera che hai esposto di recente a Bologna presso Localedue. Piedi bocciati, titolo curioso, è un dipinto che stimola alcune domande sul tuo modo di lavorare. Innanzitutto, perché hai deciso di raffigurare dei piedi? Un riferimento ironico al cliché disneyano della fiaba di Cenerentola è la prima cosa che viene in mente. C’è dell’altro? Vorrei azzardare: il quadro mi sembra evocare in maniera apparentemente spensierata una questione profondamente legata al medium pittorico, il ruolo del corpo; la presenza del corpo nell’opera e il corpo all’opera.
L’allusione alla fiaba, di cui il ricordo disneyano offusca l’origine ben più antica, viene utilizzata come semplice chiave di lettura per aprire una questione di molteplici aspetti, un meccanismo problematico che potrebbe sentirsi stretto in un’immagine sola. Il soggetto, per rivelarsi, deve convivere con il medium, la rappresentazione e l’interpretazione, la sua irriconducibilità rimane un inciampo remoto su cui mi piace tornare per condurre uno dei molti tentativi di comprenderne il disagio. La pittura discute la percezione del reale attraverso la propria superficie, in questo caso il soggetto prende la forma di un finto bozzetto che introduce a una delle prospettive del fallimento, quella dell’incompiuto. Cosi il corpo nell’opera allude, soprattutto, alla goffaggine del corpo all’opera. La silenziosa materialità della pittura mi pare essenziale aldilà di questo momento saturo di violenze percettive di ogni tipo, forse anche perché il silenzio amplifica la percezione nella maniera più spietata.
Piedi Bocciati non è un caso isolato ma fa parte di una serie di lavori nei quali unisci, come in una sorta di catalogazione o di archivio, oggetti ed elementi figurativi che tu modifichi o “ripari”, ad esempio Study of Repaired Hands. Qual è la genesi di questo tipo di pittura e come nascono queste opere?
Questi lavori sono una specie di intima saga enciclopedica sviluppata tramite lo studio e la ricerca di soggetti che sussistono in bilico tra l’interpretazione e l’invenzione. Sono anche un mio modo di fare i conti con le idee fuggevoli, una tassonomia personale di dettagli imprevedibili. Fino a ora posso dire che alcuni sono delle analisi di soluzioni a problemi non sempre risolvibili, proiezioni più o meno riuscite di nodi gordiani, interpretazioni di oggetti quotidiani con potenziale narrativo fuori luogo, ma anche indicatori di incomprensioni o di comportamenti abituali a volte talmente interiorizzati che appaiono scontati. La pittura diventa un veicolo di osservazione e preservazione di un immaginario in evoluzione, un esercizio pseudo darwiniano che non si limita alla raccolta di esemplari trovati in natura, ma analizza gli stimoli istintivi della propria logica interpretativa. Un’autoanalisi tramite la pratica che da sempre se ne nutre.
Cosa pensi della pittura oggi, nei cosiddetti Anni zero? Qual è il suo ruolo? In un contesto del linguaggio contemporaneo in cui i new media sono sempre più accessibili, e di grande moda, con quale approccio fare pittura?
Direi che la pittura è ancora uno dei linguaggi primari che, anche tramite metodologie concettuali e poliedriche, continua a esercitare la sua indole nell’assolutezza del proprio medium. Quella x indescrivibile, la cosa che ogni medium con le sue proprietà intrinseche può ancora dare all’osservatore a differenza di ogni altro, anche nelle miscele più sbagliate o anticonvenzionali, è spesso oggetto di una tendenza a mistificare l’utilizzo di una cosa piuttosto che un’altra. Scadere nella ricerca del medium perfetto per il messaggio perfetto a volte sembra gratificante, ma poi se questa ricerca è sommata a richieste del mercato sempre più entusiasmanti, non so neanche più se basti l’autocoscienza a stabilire se nella fiaba in cui ci si trova chi indica i sintomi ne sia anche parte. Il fatto che le soluzioni non siano mai unilaterali e le molte realtà paradossali non aspettino certo i media appropriati per essere ritratte, consola quanto un lieto fine.
Prendendo spunto da alcune osservazioni fatte da Fabiola Naldi, vivere e studiare a Venezia ha avuto una certa influenza sul tuo modo di fare pittura?
Come ogni luogo formativo che lascia la sua prima impronta. Per me era un luogo di lungo adattamento che poi non è mai davvero avvenuto. Appena impari a muoverti cadi dal nido, poi ci torni ma non sarà mai uguale. Rimane un’esperienza che ti accomuna a molti con cui ormai voli di anno in anno, come quelle specie di uccelli migratori che non si ricordano più su quale continente sono nati. Così abbiamo inventato dei sistemi per accudirci sempre e non lasciare che l’amnesia faccia la differenza.
Quello pittorico è solo un aspetto del tuo lavoro, non dimentico le installazioni. Come convivono questi linguaggi?
Da protagonisti e ritrattisti di realtà paradossali i media spesso coesistono al di là della propria logica, perché assimilati in un linguaggio individuale. Allo stesso tempo agiscono come indicatori e portatori, resi più o meno coscienti dei loro valori in base alle proprie funzioni. La mia scelta di esercitarli in vari modi è abbastanza intuitiva e legata alla tentazione distopica di comprendere il loro potenziale narrativo che non sempre si esplicita in un solo atto. Ogni opera visuale è composta da oggetti che mettono a disposizione se stessi e le loro relazioni con la realtà di tutti gli elementi presenti nello spazio circostante. Le relazioni a volte vengono indotte attraverso l’indifferenza tra specie diverse che nel migliore dei casi genera specie simili in universi paralleli. Mi piace quando la messa in scena avviene come uno squarcio temporaneo che esalta la dimensione ignara dei coinvolti – come in un discorso tra lingue sconosciute – che pur non capendosi, inaspettatamente ottengono il risultato voluto. Confido soprattutto nel paradosso che in un mondo completamente alieno, il potenziale per sentirsi a casa sussista in qualsiasi punto ci si trovi: trasmetterlo fa partire la fantascienza.
A cura di Enrico Camprini
Instagram: enejgala
Caption
Piedi Bocciati, 2019 – Courtesy l’artista
Enej Gala – Courtesy l’artista
Study of Repaired Hands, 2019 – Courtesy l’artista
Repaired Objects, 2019 – Installation view – Courtesy l’artista