La fine fa paura. Tutto termina, poi più nulla.
A ogni modo, “la fine” è diversa da “il fine”, come ebbe a dire Picasso in merito al ritratto di suo figlio Paulo, oppure di quella che era stata sua moglie, Olga. Gli chiedevano perché non li avesse portati a compimento, perché a tratti dovevano essere completi e a tratti solo abbozzati, con le forme che, nonostante tutto, suggerivano una continuità. Aspiravano, tendevano, volevano essere “uno”. Ebbene, niente, il pittore non cedeva alle richieste. Rispondeva, invece, nella maniera più semplice, poiché, semplicemente, egli non aveva più «il coraggio di aggiungere alcunché». «Non ci sarà mai una tela compiuta», diceva, «bensì diversi stadi di un medesimo quadro, quelli che, usualmente, scompaiono man mano che il lavoro procede». Le figure erano quelle, lo sapeva lui e lo sappiamo noi. Paulo nei panni di Arlecchino (1924) e Olga in poltrona (1918) si presentavano, infatti, come summa dell’esperienza dell’artista e del suo oggetto, coabitanti nella sintesi di un’opera. «Le parole compiere, eseguire, non hanno forse, del resto, un doppio significato? Non significano forse terminare, finire, ma anche mettere a morte, dare il colpo di grazia?». È vero dunque che non c’era “fine”, se non “il fine”, la destinazione, la continuità della forma. Perché è da qui che si comincia, dal bisogno “del fine”, da quel momento particolarissimo che ancora una volta chiamiamo inizio, in quanto, «dopo l’inizio è già la fine». La riflessione che il pittore spagnolo confessava a Teriade annuncia la necessità di un tempo che non ha tempo, di una pratica artistica che non vorrebbe chiudersi, poiché è molto probabile che non possa chiudersi. “Chiudere” significa altresì “smettere”, ma per finire dove? Per raggiungere cosa, se non l’istante di una nuova creazione? L’istante in cui si riconoscono nel campo d’azione dell’artista, o di qualsivoglia essere umano, i tasselli e i nessi, le cadute e i principi, nell’era in cui pare non essere più concessa alcuna possibilità al fallimento.
La curatela che Clara Scola ha optato per l’ultima stagione espositiva dello spazio AnonimaKunsthalle di Varese, ce lo racconta. Uno spazio costretto, una cabina armadio di quasi due metri quadrati entro la quale districare un’idea espositiva minima, tra l’implicito e l’esplicito, l’intimo e il manifesto. Una serie di sei esposizioni, «dal cuore – caldo e pulsante, motore vivo di ogni individuo – al cervello – arguto e calcolatore – per parlare in conclusione di altro da sé». Di quell’altro che è distanza da noi a noi stessi, l’altro di sé, e l’altro di un percorso, di una storia che opere e immagini costantemente “imbrogliano”. E allora perché non partire proprio dalla fine? Dall’ultima mostra proposta – visitabile fino al 6 marzo 2022 – che altro non è se non un saluto, un ringraziamento. Una scritta icastica che Luca Marcelli Pitzalis sommessamente sceglie di appendere entro il limitare dello spazio. Arrivederci e grazie, So long and thanks… un saluto nella speranza di ritrovarsi, nella speranza di esserci-di-nuovo, mentre un audio recita la salmodia del commiato. Parole e tempo, parole e ritmo, tutto d’un fiato. «Io sono un altro. Allora addio, addio a me», dice l’artista, annunciando da sé la via di un trapasso. La via di un cambio di rotta che se da un lato decreta il termine (momentaneo? definitivo?) della sua intrapresa artistica, dall’altro si intreccia inesorabilmente con la fine di un percorso espositivo. Domande e pensieri, forme e immagini senza tessuto preordinato. «Avere a che fare con l’arte», racconta la curatrice, «significa avere a che fare con il diverso, con l’altro da sé» e con l’eventuale consapevolezza, ben descritta da Marc Augé, che siamo noi a “essere stranieri a noi stessi”. Dunque, lo straniero sono io, affermava a sua volta il poeta Yves Bonnefoy, io che disegno, suono, lavoro, parlo «là dove il mio dire, per vacuità che sia e privo d’origine, diventa il mio solo sperare, il mio solo essere».
La significanza del non detto, l’immagine del non visibile, dell’attesa di ciò che ci si augura possa essere rivelato erano stati il fulcro della mostra Dedalo di Gaia De Megni (Luglio-Agosto 2020). L’acqua scura, elemento di una piccola proiezione priva di immagini, e la parola, la parola-zattera – per “quando la morte…logica e misteriosa…romperà questi limiti…” – vista a ritroso, fa da contraltare alle Liquefazioni di Federica Col (La feritoia degl’impicci, Settembre-Novembre 2020). Quando lo spazio, normalmente agibile singolarmente, oppure due a due, imponeva la presenza di una cortina di cera paraffina in funzione di porta (Liquefazione XIII, 2020). Attivata da una piccola fiammella il giorno dell’inaugurazione, consentiva di vedere oltre: due elementi geometrici di cera posti l’uno davanti all’altro (Abbraccio, 2020).
Al pari dell’artista, lo spettatore vorrebbe toccare, vorrebbe essere parte di quel che osserva…a un metro di distanza. Essere parte della delicatezza materica con cui Matilde Sambo aveva realizzato le sue sculture in fogli di soia trafitti da spine di acacia. A ricordarci, forse, non solo della delicatezza del mondo, ma della nostra stessa vulnerabilità, della nostra Sottile instabilità (Maggio-Luglio, 2021), la quale nonostante tutto, scriveva Paul Valery ne Le Cimetière Marin, non può che «tentare di vivere». Magari comprendendo un poco di più il “racconto” visivo che la materia esposta porta con sé. La stranezza di un racconto inusuale, dove le parole sono immagini e le immagini sono forme. Il racconto di un ricordo incompiuto, come la placca stampata in 3D memore delle guardie di Katana giapponesi (tsuba) che Andrea Bocca adopera a copri presa. E basta poi un intervento minimo, una piccola luce notturna della quale madri, padri e nonni talvolta ci hanno regalato il lusso, per rasserenare i sogni e scacciare la paura del distacco (Mom please, don’t turn me off the light!, Ottobre-Dicembre, 2021).
«Ogni mostra è parte di un corpo», mi confida la curatrice, «è parte di, un insieme di… Tira fuori il dentro, porta dentro il fuori, significa proprio questo». È un contrasto di aspettative, un’ipotesi di lettura. Il corpo dell’opera, come il corpo del visitatore, che reciprocamente si guardano e si incontrano l’uno nei panni dell’altro. Nel tempo della fragilità, uniti forse dal peso di un’inconsistenza complice del desiderio. Il film girato in super 8 da Anna Pezzoli riprende una persona che piange sdraiata (5 p.m. Tear Time, Agosto-Settembre, 2021). Il tempo della lacrima o, come scrisse nel 2007 il buon Daverio in risposta a “l’ecologia della bruttezza” di Umberto Eco (Storia della bruttezza, Bompiani 2007), il tempo del “diritto alla lacrima”. In una disputa tra giganti che tuttavia aiuta a mettere in luce la necessità di quello che i tedeschi chiamano bewegung, “movimento”, che è anche “qualcosa che ci commuova”. Poiché è forse vero che quel che termina non si esaurisce, che il distacco genera ricordo, e che la lacrima, a sua volta, ci ricorda che «è là che sarebbe bello essere. Là dove si è. Ora io dove sono» (L.M. Pitzalis).
Luca Maffeo
www.anonimakunsthalle.jimdofree.com
Instagram: anonimakunsthalle
Instagram: scolalaclara
Caption
Luca Marcelli Pitzalis, So long and thanks! – 2021, Exhibition View, AnonimaKunsthalle – Courtesy AnonimaKunsthalle, ph Giovanni Sambo
Gaia De Megni, Dedalo – 2020, Exhibition View, AnonimaKunsthalle – Courtesy AnonimaKunsthalle, ph Giovanni Sambo
Federica Col, La feritoia degl’impicci – 2020, Exhibition View, AnonimaKunsthalle – Courtesy AnonimaKunsthalle, ph Giovanni Sambo
Matilde Sambo, Sottile instabilità – 2021, Exhibition View, AnonimaKunsthalle – Courtesy AnonimaKunsthalle, ph Giovanni Sambo
Andrea Bocca, mom please, don’t turn off the light! – 2021, Exhibition View, AnonimaKunsthalle – Courtesy AnonimaKunsthalle, ph Giovanni Sambo
Anna Pezzoli, 5 p.m. Tear Time – 2021, Exhibition View, AnonimaKunsthalle – Courtesy AnonimaKunsthalle, ph Giovanni Sambo