In un elegante palazzo risalente alla metà del XIX secolo in pieno centro città, con architetture ecclettiche all’esterno, colonnati classici nel cortile, grandi ambienti e lunghi corridoi, ha sede Carnelutti Studio Legale Associato, fondato nella seconda metà del 1800. Radici lontane e una storia consolidata con sedi e clientela internazionale rivelano, però, un’anima decisamente contemporanea. Il motivo, la collezione d’arte. Promossa e sostenuta da un gruppo di soci e collezionisti per cui l’esperienza estetica è una possibilità di condivisione culturale. Un fatto privato che nasconde passioni e desideri che si manifestano al suo pubblico con la generosità di quel gesto, come racconta l’avvocato Francesco Francica, uno dei referenti del progetto.
Come nasce l’idea della collezione?
Da un gruppo di appassionati. Da una visione comune è nata l’idea di ospitare nelle sedi una sorta di “collezione diffusa” in cui transitano le nostre opere. La scelta di coinvolgere un pubblico più ampio è arrivata con il programma degli eventi collaterali del Miart. Come collezionista distinguo tra ricerca e possesso. La ricerca è una necessità per scoprire nuovi artisti, codici e linguaggi espressivi. L’attività si esaurisce nell’atto stesso dell’acquisto. L’idea del possesso è un pensiero distante che trova giustificazione proprio nella condivisione.
Quali opere sono ospitate presso le Vostre sedi?
Quasi esclusivamente arte contemporanea. È possibile incrociare un artista poliedrico come André Bloc o la pittura essenziale di Isaac Brest. Abbiamo ospitato un giovane Christian Rosa, il cui lavoro è costituito da segni antropomorfi e minimali o le fotografie di Adrian Paci, con i temi ricorrenti della perdita e dei processi migratori o ancora le “questioni di astrazioni e rappresentazione” della natura di Sam Falls.
È entrata in collezione la nostra prima performance dell’artista americano, Puppies Puppies, la cui identità è celata dietro i suoi costumi, come quello della statua della libertà esposto alla Whitney Biennal 2017. È una collezione in divenire, si trasforma come mutano le scelte. Due opere, ad esempio, sono in prestito al Maga di Gallarate, altre sono impacchettate e attendono di essere spostate. Della prima mostra non c’è quasi più nulla.

Come si sviluppano i progetti per il Miart?
Dal dialogo, dalle idee e dalle suggestioni che ci scambiamo. È un evento temporaneo, dura due giorni. Tutti i progetti sono sostenuti e finanziati da noi ma affidiamo poi il compito a un curatore esterno. The C Art Collection è stato il primo nel 2015, curato da Vittoria Broggini. Si trattava di una collettiva di quarantadue opere prelevate direttamente dalle nostre collezioni. L’astrazione pittorica e colorata di Sebastian Black, l’intramontabile fotografia di Luigi Ghirri o i lavori ironici di Paola Pivi fino alle questioni identitarie universali di Dahn Vo, artista vietnamita, che raccoglie tracce del passato attraverso cui ricostruire la storia.
L’azzardo più riuscito è Je ne sais que what, del 2016. Lo studio si è animato di personaggi che hanno interagito direttamente con gli ambienti trasformandolo in un luogo surreale. Ad esempio, una serra abbandonata, installazione dell’artista Sol Calero, ha modificato l’identità di uno spazio così connotato come la biblioteca, nel cortile ha trovato la sua collocazione una fontana, un’opera impegnativa di Santo Tolone. Matteo Rubbi ha intrattenuto gli ospiti con vecchi giochi da tavolo e Renato Leotta ha realizzato tre ritratti dei soci storici.
Il progetto più poetico è stato Picture Perfect del 2017, curato da Carlo Prada. La serialità e la ripetizione delle nature morte espresse nel realismo di Oliver Osborne con la pianta della gomma o nel lavoro di una vita del tedesco Peter Dreher, sette piccoli quadri, della serie Tag um Tag guter Tag, un bicchiere vuoto dipinto giorno e notte. La fotografia di Liza Holzer ha ingannato l’occhio dello spettatore scambiando, dettagli ingranditi di parti di pelle di animale, per pennellate leggere. La scelta più complicata? Un Morandi, con tutte le difficoltà pratiche, dall’assicurazione, alla guardia armata.

Com’è il vostro rapporto con il pubblico?
Sono eventi a invito. L’affluenza del pubblico esterno è limitata alle occasioni ufficiali per motivi di privacy e per consentire il regolare svolgimento delle attività professionali. Al momento non riusciamo ad avere una maggiore diffusione per questioni anche logistiche.
Come vede il ruolo sempre più centrale del privato nel sistema dell’arte?
Come privati abbiamo una posizione di privilegio e responsabilità operando in un contesto intellettualmente stimolante. Ci proponiamo come un territorio aperto ad accogliere idee e progetti, a produrre contenuti che possano inserirsi in un tessuto culturale.
Come studio legale vi occupate di diritto dell’arte?
Certamente, assistiamo fondazioni e collezioni internazionali, occupandoci dei vari aspetti del diritto dell’arte.
Prossimi progetti?
Ci stiamo lavorando, il prossimo progetto è ancora in fase di definizione.
Immagine di copertina: Christian Rosa – Maybe not – pastello, olio, resina e carboncino su tela 320×200 – installation view, 2015, The C Art Collections, Studio Carnelutti Associati, Milano – credits Alessandro Zambianchi
Secret Place di Elena Solito