Nel Seicento, il re di Francia Luigi XIV assunse l’appellativo di Re Sole; convergendo le recenti teorie copernicane nella propria persona e divenendo il centro della nazione dette vita all’istituzione dello stato assolutista. Fin dall’alba della civiltà l’immagine del sole ha assunto un significato centrale nella vita dell’essere umano: il sole dà vita, illumina e protegge dagli orrori celati dall’oscurità della notte ma può saper recare distruzione.
L’installazione Desertification (2016) dell’artista lituana Kristina Inčiūraitė (Siauliai, 1974) – ospitata, fino al 26 ottobre, presso l’associazione culturale Albumarte di Roma in occasione della mostra Reflecting Women, realizzata a cura di Benedetta Carpi De Resmini – riappropriandosi del simbolismo iconografico solare sintetizza una nuova visione, distante da quella contingente di Olafur Eliasson. L’artista pixellizza l’astro celeste rendendolo non solo un qualcosa d’indefinito e distante ma anche un’entità trascendente portatrice di asilo: la luce di un faro che orienta nelle acque della disperazione. Sotto l’opaca luminescenza, un mare nero di suoni sommessi e metallici procede lento verso l’orizzonte di speranza, dove tutto ha inizio e fine. Metafora sensoriale, l’opera diviene emblema, descrivendo la vicenda dei rifugiati siriani accolti nel 2015 in Canada. Poetica la visione luminosa, contrastante con le tenebre che salgono dal basso, che mescolata agli echi ovattati delle voci effimere infonde una sensazione d’inquieta serenità, la consapevolezza, presumibilmente, di aver superato la tempesta. Il canto irreale che si ode è un’antica canzone musulmana eseguita da un coro scolastico canadese. L’effetto finale è strabiliante. Il sentore del pericolo è ancora percepibile; tuttavia, la luce salvifica sembra curare le ferite e infliggere un colpo fatale alle tenebre. L’artista, attratta dal dibattuto tema dell’identità, si sofferma sulla ricerca della libertà capace di abbattere le sbarre che da secoli relegano la donna nella sua condizione di prigionia. Per raggiungere la verità Inčiūraitė penetra nei meandri dell’abisso, raggiungendo un vuoto potenziale, il punto zero dove la figura scompare e si origina. La videoperformance June è una delle opere dove meglio si osserva il processo messo in atto dall’artista. La sala di un teatro si presenta vuota, priva della presenza umana, l’inquadratura rimane ferma. Finestra su un mondo dimenticato, il silenzio avvolge la scena; il vuoto, protagonista assoluto, partorisce i germi della possibilità di definizione grazie a uno schermo vicino dove si assiste a The echo of shadow. Female Crickets and Parasitic Flies. Qui, dei grilli imprigionati in un barattolo di vetro tentano di trovare una via di fuga. Le due opere si relazionano dialetticamente: il corpo dell’insetto si definisce nei termini in cui il vuoto del contenitore agisce su di lui; la sala teatrale acquista un nuovo significato rapportandosi con l’invadente presenza delle sedute, che riempiono lo spazio interno, e con la pienezza della carne del grillo che le è vicino.
In modo alternativo agisce il vuoto nella videoperfomance The echo of shadow (2015) nel quale si susseguono gli scorci semideserti del quartiere cinese Tianducheng intrecciati alle frasi emesse a fil di voce della poesia di Gan Lirou. I due livelli semantici si sovrappongono generando l’analogia tra il tema dell’abbandono e quello della malattia; la città fantasma, con la sua iconica copia della Tour Effeil, è il palcoscenico dell’assenza che tratteggia i contorni delle esigenze e dei desideri delle donne che la abitano. Evidente è qui il tentativo di riscattare la donna dal suo stato di spettatrice passiva, la figura del grillo diviene metafora di salvezza. In Spinsters l’annullamento dell’identità stereotipata si intravede nel dettaglio di spalle della giovane protagonista che appare nella sua silhouette come un’anziana signora. Il particolare sommerge l’intera inquadratura, astraendo l’immagine. Allo stesso modo la musica pop, che si ode all’imporvviso in sottofondo, inonda la scena con note esuberanti e a tratti dolci, dipingendo un intimo ritratto delle giovani zitelle lituane intente nella vivacità del loro quotidiano e delle loro speranze giovanili. Forte ricorre il riferimento al desiderio e alla volontà di cambiare ed evolversi, lasciando volta per volta la propria crisalide dietro di sé; è questo il filo conduttore che lega le diverse esperienze artistiche di Inčiūraitė, attenta a osservare gli interstizi della realtà dove si nascondono le forme indeterminate che danno corpo alla vita. È un lavoro di cesello che lento e procedurale si inabissa silenzioso nella materia indefinita, ricercando la verità, il paradosso e le contraddizioni nella definizione statica e predeterminata di esser umano, che con cura ancor più parossistica si insinua attraverso i filamenti sottili di una ricerca senza tempo, che vede la donna protagonista assoluta del quadro ultimo. Scandagliando si possono scorgere le numerose sfaccettature e gradazioni che formano la corolla di un fiore raro, un fiore che si può cercar di comprendere ma che per alcuni rimarrà per sempre un mistero.
Erika Cammerata
Kristina Inčiūraitė
Reflecting Women
a cura di Benedetta Carpi De Resmini
16 settembre – 26 ottobre 2019
Albumarte – Via Flaminia, 122 – Roma
Instagram: albumarte_roma
Caption
Kristina Inčiūraitė, Reflecting Women, 2019 – Courtesy Albumarte