La mostra Yvonne Rainer: Words, Dances, Films, realizzata a cura di Caterina Molteni presso il MAMbo di Bologna (30 giugno – 10 settembre 2023) ha come snodo fondamentale del suo sviluppo l’ecletticità: dalla coreografia e la danza, fino ad arrivare al cinema e all’archivio, attraverso uno sviluppo teorico che inanella rapporti con la poesia e la scrittura programmatica. Un’esperienza estetica che oltre a porre l’accento sulle contaminazioni dei linguaggi, invita a riflettere sulla realtà di oggi, mediante la lettura filologica dell’opera di un’artista legata alla storia estetica degli ultimi quarant’anni.
Muovendoci tra passato e presente, nel tentativo di comprendere maggiormente la pratica dell’artista e il possibile nesso con le proposte attuali, abbiamo dialogato con la curatrice.
Il tuo lavoro è iniziato negli spazi indipendenti con l’esperienza di Tile project space, realtà attiva a Milano tra il 2014 e il 2019, ora sei curatrice al MAMbo di Bologna. Che impatto ha avuto questo percorso nella tua formazione e nella tua pratica curatoriale?
Muovere i primi passi da curatrice nella produzione artista indipendente è stato un percorso di formazione. Ricordo un’energia pazzesca, il desiderio di impegnarmi in qualcosa di concreto, la freschezza di prospettiva, la fiducia quasi incondizionata nel lavoro dell’artista. Penso che, al di là delle tante cose pratiche che si apprendono nella gestione quotidiana dello spazio – dalla scrittura di un comunicato stampa alla produzione di nuove opere – l’aspetto più importante sia stato crescere professionalmente con le artiste e gli artisti con cui ho lavorato durante quei cinque anni. Con loro ho imparato a leggere lo spazio, a ripensarlo ogni volta in modo differente, a interpretare un’opera appena prodotta e scriverne per la prima volta, a lasciarmi guidare dalla ricerca artistica, mettendo sempre al primo posto il lavoro rispetto al discorso teorico del momento. Quello che conservo gelosamente di quel periodo è la curiosità e la disponibilità a mettere in discussione costantemente il mio punto di vista.
Dai giovani artisti alla storia. Cosa possono insegnare le esperienze estetiche del passato alla realtà odierna?
Presentare esperienze estetiche del passato serve a pensare il museo come un luogo di studio e formazione, dove offrire al pubblico approfondimenti su linguaggi, come quello della danza, poco raccontati all’interno delle istituzioni museali, e riflettere sull’impatto che specifiche rivoluzioni formali hanno avuto sul mondo dell’arte contemporanea.
Allo stesso tempo, come nel caso di Rainer, le tematiche dibattute nei lavori sono ancora di straordinaria attualità e possono fornire riflessioni preziose. Basta pensare ai suoi film e al modo nel quale riflettono sulla rappresentazione della donna nel cinema hollywoodiano, sui rapporti di potere che si innescano nelle relazioni amorose, su tabù sociali come la menopausa e l’invecchiamento femminile, l’amore lesbico, il razzismo e il classismo nella società americana.
Cosa significa per te lavorare all’interno di un’istituzione museale?
Lavorare al MAMbo, seguire da vicino l’idea di direzione di Lorenzo Balbi, mi ha sicuramente insegnato a osservare il museo pubblico come un “presidio culturale” – come lui stesso lo definisce – che tutela e conserva la propria collezione, le storie e le realtà artistiche della città in cui opera, mentre parallelamente propone occasioni di riflessione sulla realtà sociale che stiamo vivendo.
Partecipare a questa progettualità ha significato per me avere spostato l’attenzione verso il pubblico, che ritengo il vero committente di un museo civico, nello specifico, come curatrice, sulle possibilità di racconto e di mediazione dell’arte contemporanea a gruppi sempre più diversificati.
Credo nella possibilità di trasformare il museo in luogo di produzione culturale e di creazione di nuove relazioni e interessi, uscendo dalle dinamiche autocelebrative, di stampo individualista e neoliberale, che caratterizzano largamente il mondo dell’arte contemporanea. Il museo è un’istituzione in cui c’è ancora la possibilità di operare al di là di interessi economici, “liberamente” rispetto a dinamiche di potere o prettamente finanziarie, un po’ come succedeva in quel sottoscala tutto piastrellato (Tile project space) dove ho mosso i primi passi.
La mostra Yvonne Rainer: Words, Dances, Films racconta di contaminazioni, di corpo, di un viatico sociale e politico che si muove tra la danza e il cinema, fino alla scrittura e alla teorizzazione estetica. Non sembra poi così lontana dall’arte attuale, non trovi?
La questione della contaminazione delle discipline è un fenomeno ormai consolidato, inaugurato dalle avanguardie storiche, che da quel momento non è mai cessato di esistere. Rainer in modo quasi ironico fa un po’ il verso all’atteggiamento “programmatico” delle avanguardie, basti pensare al suo No Manifesto, 1965, sviluppato per negazione, e poi rimesso in discussione nel 2008. Allo stesso tempo sapeva, negli anni Sessanta, di star introducendo elementi drammaturgici innovativi che avrebbero rivoluzionato la danza e la sua storia, e quindi che si sarebbe definito un nuovo linguaggio (di questo ne parla in A Quasi Survey of Some ‘Minimalist’ Tendencies in the Quantitatively Minimal Dance Activity Midst the Plethora, or An Analysis of Trio A, 1968, parte di un’ampia antologia sull’arte minimalista americana).
Nel cinema, a mio parere, l’approccio pionieristico lascia spazio allo sperimentalismo di stampo post-moderno, sviluppato sul piano formale nella libertà di montaggio dove vengono spesso impiegati pastiche di fonti disparate – già presente anche nelle coreografie -, e nella scrittura delle sceneggiature dove l’approccio è fortemente post-strutturalista, psicanalitico, di analisi socio-politica.
Perché una mostra di Yvonne Rainer in questo preciso momento storico?
Il recente restauro dei film di Rainer da parte del MoMA – Modern Art Museum of New York, con il relativo programma di valorizzazione del patrimonio, hanno creato l’occasione per portare questi materiali in Italia e, a partire da essi, ampliare il progetto di ricerca.
Ritengo ci siano diverse ragioni per presentare il lavoro di Rainer in questo momento storico.
La sua ricerca sul minimalismo nella danza nasceva da un’avversione verso la spettacolarizzazione della realtà e verso le dinamiche seduttive insite in questa messinscena. Alla danza come intrattenimento magico e derealizzante, Rainer contrappone una visione del corpo e del movimento che aderiscono alla realtà, non cercano di coprirla, quanto piuttosto di riprodurla o portarla in scena per se stessa (vedi l’idea di improvvisazione e di movimento generato spontaneamente dalla commissione di un compito). Al di là del valore politico del corpo che Rainer ci racconta e che non può smettere di essere attuale, tale visione ci porta a riflettere sulla relazione che abbiamo con il dato reale in una società in cui su più livelli – da quello personale a quello politico – esso viene inabissato costantemente da forme di narrazione sensazionalistica che appunto “intrattengono” il pubblico al posto di informarlo o coinvolgerlo attivamente in una valutazione.
Il cinema di Rainer ci mette di fronte a questo aspetto fondamentale: come usare una storia non semplicemente per intrattenere ma piuttosto innescare un processo di presa di coscienza in chi la fruisce? Una domanda importante anche per chi lavora in una istituzione museale: la visita a una mostra è una passeggiata disimpegnata e divertente, o può diventare anche un percorso di conoscenza?
Rainer sembra indicarci che il linguaggio è lo strumento con cui giocare: nella danza il linguaggio del passato viene rifiutato e da questa avversione al “già noto e consolidato” ne nasce uno differente in grado di fare luce sui luoghi comuni che si sono creati nel precedente; nel cinema è il terreno sul quale costruire una visione critica della società, impegnandosi a porre domande e non lasciare spazio ai clichè e alla loro capacità di “racchiudere la vita all’interno di una formula squisitamente inalterabile e di oscurare la natura arbitraria dell’immaginazione con un’apparenza di necessità” (dal primo intertesto di Lives of Performers, 1972).
A cura di Luca Maffeo
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Caption
Yvonne Rainer: Words, Dances, Films, Veduta di allestimento, MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, 2023 – Courtesy MAMbo, ph RMphotostudio