Ammiccante, ironico, androgino, irriverente, concettuale e intellettualmente spietato: dalla fine degli anni Sessanta Urs Lüthi (1947, Kriens) è impegnato in una rigorosa indagine visiva dei grandi temi dell’esistenza, affrontandoli come se fossero le tappe consequenziali di un unico ininterrotto ragionamento scandito da incursioni e citazioni tra arte e vita in cui l’artista si offre come immagine incarnata del mondo. Utilizzando differenti linguaggi e registri stilistici Lüthi è attore, soggetto e idea di un viaggio simbolico che mette a nudo debolezze e ossessioni dell’essere umano esasperando e scandagliando le proprie esperienze personali per restituirle in chiave universale. Protagonista antimonumentale di ogni aspetto dell’opera, la sua presenza iconica appare epurata da contingenze e soggettività per suscitare l’identificazione dello spettatore sottilmente indotto a delegare il corpo dell’artista all’assorbimento della vita per trasformarla in metafora senziente. Impersonando forme estreme di alterità o facendosi paradigma di un’ostentata mediocrità l’artista esplora la fragilità del reale e le possibili rappresentazioni del sé in una costante ambivalenza tra emozioni sublimi e meschinità quotidiane. In queste incursioni esperienziali la sua persona, prestata al processo artistico, diventa unità di misura, strumento descrittivo e sintesi documentaria di un’indagine umanistica che reinstalla l’uomo al centro dell’Universo e ne registra le azioni e i comportamenti per sintetizzarli in un’inscindibile mescolanza filosofica di individualità e generalità.

Da sempre interessato al concetto di trasformazione, motore della storia individuale e collettiva e principale strumento operativo della sua pratica artistica, Lüthi nella personale in corso a OTTO Gallery mette in scena un delicato bilancio esistenziale come ideale proseguimento dalla famosa serie fotografica Just Another Story About Leaving (1974) in cui immaginava come sarebbe invecchiato il suo volto con il trascorrere del tempo. A quarant’anni di distanza il cambiamento sembra aver rivoluzionato la sua attitudine emotiva in modo altrettanto radicale del suo aspetto esteriore: se negli anni Settanta Lüthi fissava intensamente l’obiettivo come per indovinarvi il riflesso di un imperscrutabile avvenire, nella serie Selfportrait Brachland (2014) si ritrae di spalle su sfondo neutro stemperando ogni tensione in una modulata scala di grigi che richiama la bassa risoluzione di una telecamera di sorveglianza. Prendendo distanza dalle sue più intime pulsioni emozionali l’artista sembra guardare se stesso rivolto verso uno sconosciuto approdo finale e appare finalmente pacificato nell’acquisita consapevolezza della costitutiva transitorietà dell’esperienza umana. Il suo bagaglio per l’ignoto è ridotto all’essenziale: una valigetta portadocumenti, il suo cuore dall’imperfetto funzionamento e la dolcezza di una neonata che incarna le promesse di un percorso ancora aperto a tutte le eventualità e alla fiducia in un futuro incerto ma possibile.
La serie fotografica è ambientata in un onirico paesaggio composto da sculture e pannelli monocromi in cui il rigore geometrico dei piani viene lievemente movimentato da colature di vernice grigia che si rapprendono in un impasto denso e lucido. In un pianeta prossimo alla distruzione l’artista riesce ancora a immaginare scenari di incantata bellezza che nutrendosi di silenzio e assenza filtrano il caos esterno in una rarefatta atmosfera post-human.
Con l’età aumentano la consapevolezza e l’empatia con la sofferenza che imperversa nei luoghi più critici del mondo, così nella serie di sculture intitolata Lost Direction l’artista si trasforma in un friabile fantoccio mutilato, contorto e molteplice come i corpi straziati dalle mine nei luoghi di guerra. Le statuine modellate a sua immagine sono beffardamente collocate su piedistalli che poggiano su un borghesissimo tappeto orientaleggiante che allude al salotto occidentale dove il terribile eco dei conflitti lontani si mescola all’intrattenimento televisivo serale.

Perbenisticamente provocatorio è anche il Lüthi immortalato in alcune foto appese alle pareti della stanza: giocherellando con un paio di occhiali sovradimensionati rispetto al suo volto, l’artista protende le labbra appena imporporate da un velo di rossetto o da un filtro digitale in una civettuola protesta contro il sistema. La stessa gamma cromatica di questi ritratti ritorna nelle sette fotografie in cui immortala altrettante possibilità compositive delle pastiglie che da vent’anni è costretto ad assumere quotidianamente per ovviare al difettoso lavorio dei suoi organi interni, interpretandole come silhouette di omini stilizzati dotati di una propria artificiale vitalità. Proprio ad alcune di quelle pillole è delegata la regolazione dei battiti del cuore che l’artista tiene in mano in Selfportrait Brachland, fornendo ulteriore oggettiva conferma di quanto la vita biologica sia precaria.
Il destino dell’uomo è l’abbandono della forma, la partenza verso lo sconosciuto amalgama grigio suggerito da Wasteland e dell’essere non rimarranno che un involucro fragile e un labile ricordo, esili come il misterioso oggetto tubolare in vetro a cui è assemblata ancora una volta la testa dell’artista e che viene cautamente esposto protetto da una teca come se fosse un ex voto o una reliquia taumaturgica. Assottigliando e smaterializzando la sua effige fino alla soglia della sparizione definitiva, Lüthi espande il vuoto e il silenzio per lasciar risuonare ancora più chiaramente il principio esistenziale che da sempre sintetizza la sua attitudine creativa: Art is the better life, in cui l’arte è il tramite più diretto per riflettere le aporie della realtà, per coglierne l’essenza ed esasperarla in nuove ammalianti utopie estetiche.
Emanuela Zanon
URS LÜTHI
ART IS THE BETTER LIFE
a cura di Elena Forin
11 dicembre 2016 – 13 marzo 2017
OTTO GALLERY ARTE CONTEMPORANEA – Via D’Azeglio, 55 – Bologna
Immagine di copertina: Art is the better life – installation view – courtesy OTTO Gallery, Bologna