Apologia dei mostri. Le Unbinding Creatures di Camilla Alberti

Ci piacerebbe poter dire di essere persone autentiche, eppure la spasmodica brama di dimostrare la nostra autenticità è essa stessa un sintomo di finzione. Forse la vera autenticità è quella che accetta e non nasconde le proprie ipocrisie. Fra queste, una delle più problematiche è sicuramente quella legata al nostro concetto di bellezza: in quella che definisce “società della positività”, il filosofo coreano Byung-Chul Han riscontra una sorta di parafilia per la levigatezza, caratteristica che – come scrive nel suo saggio La salvezza del bello – “è ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana”. Nell’arte, così come nella tecnologia e nella seduzione, la levigatezza diventa un paradigma della perfezione e della bellezza, in quanto assenza di qualsiasi asperità.

Le Unbinding Creatures di Camilla Alberti (Milano, 1994) si fanno araldi dell’esatto opposto. Sculture ibride tra l’organico e l’industriale, le creature biomorfe di Camilla Alberti sono testimoni della negazione di qualsiasi canone – levigatezza in primis. L’artista non esita a chiamare le sue creazioni “mostri”, arricchendo tale definizione, però, di un significato positivo: quello originato dalla rielaborazione delle nostre certezze, dall’abbattimento di un’arcaica kalokagathia (il concetto greco secondo cui la bellezza si accompagna sempre alla bontà d’animo e viceversa) e dell’ambigua fairness anglosassone. Un “mostro” dal punto di vista estetico, dunque, diventa così nient’altro che una diversa conformazione della realtà, non necessariamente malvagia. Si tratta del tentativo di superare un bias millenario, forse innato.

Sulla base delle riflessioni di Byung-Chul Han, Camilla Alberti risulta antitetica rispetto a Koons. I molti anfratti delle Unbinding Creatures sono abitati da minuziosi particolari che trascinano lo spettatore in una continua scoperta e sorpresa, dimenticando la levigatezza pornografica (ovvero esplicita nella sua immediata e disvelata apparenza) dei celebri Balloon Dogs dell’artista americano. Al cospetto delle opere di Alberti, è proprio il mistero a consentire allo spettatore di superare la naturale repulsione per ciò che non rientra negli schemi del piacere. Esse stimolano una reazione attiva in chi le osserva, guidata dalla naturale curiosità per ciò che è inaspettato. E tuttavia, addentrandosi nei meandri delle creature realizzate dall’artista milanese, ci si rende conto di quanto sia difficile descriverle – impulsivamente – con aggettivi appartenenti a categorie semantiche diverse da quella della bellezza. Questo non è un errore; piuttosto, è il segno di un’inconscia rielaborazione della nostra concezione del bello, di una distanza dal canone generata da un’imprevista – eppur autentica – esperienza estetica. Nel momento in cui, poi, si tenta di correggere la propria scelta lessicale con lemmi che si ritengono maggiormente specifici, si è nuovamente caduti nella trappola del canone, negando che l’attributo “bello” possa legarsi a qualcosa che tradizionalmente non viene riconosciuto come tale (Anche io, non posso negarlo, sono precipitato nel tranello). Il maggior pregio delle Unbinding Creatures è proprio la loro capacità di ribaltare, anche solo per un momento, il nostro concetto di bellezza.



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La mostruosità di queste opere risiede soprattutto nella loro intrinseca contaminazione: esse risultano armonici aggregati di materiali esclusivamente di recupero, appartenenti sia all’ambiente antropico sia a quello naturale. In Berenice [1]– uno degli esemplari più affascinanti di questa serie – radici, licheni e valve di mitili incontrano catene, frammenti di ceramica e tubi idraulici. Il risultato è una struttura ibrida, un essere dall’aspetto alieno e, tuttavia, frutto di elementi che non esiteremmo a definire banali. Accorgersi di come l’arte riesca a rendere interessante ciò che ogni giorno non degniamo di uno sguardo significa prendere coscienza di un’ulteriore nostra ipocrisia. Le Unbinding Creatures sfidano il concetto di perfezione incontaminata, liberandosi dai vincoli della coerenza specifica e abbracciando il fascino di una frammentarietà interspecifica, presupposto di continua alterità.

Scriveva Adorno, nella sua Teoria Estetica: “Il bello naturale è la traccia del non-identico nelle cose sottoposte alla signoria dell’identità universale”.

C’è un motivo ben preciso dell’apparenza a tratti fossile di queste creature: gli elementi di cui sono composte sono reduci da esistenze e utilizzi passati. Alcuni di essi, come le radici e le ossa di animali, erano parte di esseri viventi o addirittura li ospitavano; gli apparati artificiali, invece, hanno svolto la loro funzione in processi meccanici o in situazioni di uso comune. La stessa preparazione dei materiali è il risultato di una interrelazione fra specie differenti: Alberti lascia che siano le vespe a trattare le chele di granchio che talvolta emergono dalle strutture dei mostri; solo questi insetti riescono a pulirle in modo da evitarne la putrefazione, preservandole perfettamente. Queste creature, dunque, non solo rappresentano la convivenza tra elementi fra loro lontani, ma la presenza dei loro stessi componenti racchiude la collaborazione invisibile fra l’artista e le altre specie.

A metà fra l’archeologia industriale e quella biologica, Camilla Alberti immagina le possibilità di sviluppo e convivenza a partire da quelle che chiama “rovine”. Il posto di una vita interrotta, o di una civiltà caduta, viene naturalmente preso da altrettante vite o civiltà, che devono trasformare a proprio vantaggio ciò che rimane di chi le precedeva: in questo senso, da emblemi del disuso, le rovine diventano sinonimo di nuove opportunità. Le Unbinding Creatures sono la materializzazione del rapporto fra corpo e luogo, e della loro reciproca identità risolvibile nella rovina. “I nostri stessi corpi” spiega l’artista “sono luoghi per le forme di vita invisibili che si sviluppano sulla nostra epidermide, nel medesimo modo in cui noi abitiamo il nostro ecosistema, a sua volta un essere vivente”. Tutti gli esseri viventi (e non) si configurano come rovine in potenza e, contemporaneamente, come simbionti di altrettante rovine. Figlie di tali reliquie e, tuttavia, rivolte inevitabilmente al futuro, le Unbinding Creatures incarnano la possibilità di recupero delle frammentarie spoglie di esistenze ormai trascorse, configurandosi come forme di vita in continua evoluzione, taciturne abitanti dell’avvenire.

Alberto Villa


1. L’effettivo titolo dell’opera è “Unbinding Creatures. La sala delle rovine. Organismo 3”. “Berenice” è il nome con cui l’artista ha affettuosamente chiamato la creatura.


Instagram: camilla__alberti


Caption

Camilla Alberti, Unbinding Creatures. La sala delle rovine. Organismo 3 (Berenice), Installation View After-Eva a Palazzo Strozzi (ph Ela Bialkowska – OKNO studio)

Camilla Alberti, Unbinding Creatures. La sala delle rovine. Organismo 3 (Berenice), dettaglio, Installation View After-Eva a Palazzo Strozzi (courtesy of the artist)

Camilla Alberti, Unbinding Creatures. Organismo 21, 2022 (courtesy of the artist)

Camilla Alberti, Unbinding Creatures. Bayon Organism. Organismo 6, 2021, commissionata per #inspiredbybayon da Hyundai Europe (ph Hyundai Motors)