Tommaso Gatti nasce il 31 maggio 1992 a Milano, città in cui vive e lavora dopo aver compiuto il suo percorso di studi in Scultura e in Visual Cultures presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. La sua ricerca estetica si sviluppa libera da tematiche prestabilite, materiali di origine naturale e prodotti artificiali si fondano e dialogano in una continua inversione dei ruoli e delle caratteristiche semantiche. Le sue opere occupano lo spazio attivandolo sul piano estetico e su quello culturale dando eleganza formale e contenutistica a un caos apparente.
Da quanto tempo fai l’artista e quali differenze noti fra i tuoi esordi e oggi?
Suonerebbe retorico parafrasare la celebre frase che Picasso rivolse a un cliente non disposto a pagar caro il veloce ritratto che per lui schizzò e che a suo dire lo tenne impegnato, non i pochi minuti necessari a realizzarlo, ma tutta una vita. Molto più onesto e semplice affermare che la mia carriera artistica ebbe inizio nel 2012 a causa d’una serie di inattese circostanze che mi portarono alla realizzazione della mia prima scultura. Mettendo a confronto quell’opera immatura con quel che tutt’ora seguito a realizzare, tra le numerose differenze che riscontro, una sola quella su cui mi preme porre l’accento. Allora, gran parte dei miei sforzi erano impiegati nella disperata ricerca di una certa sprezzatura che non apparteneva a me ma al gusto diffuso di coloro coi quali mi trovavo a confrontarmi. Ora che finalmente padroneggio l’indifferenza verso qualsiasi questione di gusto e il mio lavoro è formalmente lontano dal patetico stereotipo d’un atteggiamento sprezzante, paradossalmente lo considero il prodotto d’un più profondo e sincero disinteresse nei confronti del giudizio e delle aspettative d’un ipotetico pubblico.

Quali tematiche trattano i tuoi lavori e che progetti hai in programma?
I miei lavori non trattano tematiche. Il “tema” presuppone sempre un’atteggiamento pretestuoso nei confronti del lavoro. Si stabilisce, a priori, un argomento e si finisce per creare una scultura come un contenitore vuoto da riempire, veicolo potenziale per messaggi appiccicati come post-it sulla superficie di opere sempre più simili a nient’altro che lo spettro d’un comunicato stampa. Il tema è lo strumento che gli artisti adoperano nel tentativo di tessere un artificioso fil rouge a unire le tappe d’un percorso che in realtà non procede mai in maniera lineare e progressiva, ma caotica e frammentaria. Un fil rouge col quale, prima o poi, finiamo tutti per strozzarci, costantemente ossessionati da un desiderio di riconoscibilità che renda il lavoro facilmente “comunicabile”. Ma un’opera d’arte è un’esperienza più complessa di qualche riga in uno statement, ciò cui per pigrizia, la si vorrebbe veder ridotta, ed è sempre, paradossalmente, più intelligente di chi cerca in tutti i modi di difenderla. Il mistero, l’imprevisto, il fallimento, sono suoi elementi costitutivi e in quanto tali necessitano di una prassi in grado di accoglierli e dargli voce. Per questo ritengo assolutamente necessario il non voler forzare alcuna coerenza ma lasciare che questa naturalmente emerga e in maniera sottile dal corpus di un lavoro che non ha timore di rivendicare ritmi più lenti di quelli a cui gli artisti sono oggi sottoposti.
Come ti rapporti con la città in cui vivi?
La città in cui vivo è la stessa che mi ha dato i natali e in cui abito ormai da 26 anni. È una città da cui più volte ho provato a fuggire ma a cui, alla fine, sono sempre tornato. Considero Milano, una città a misura d’uomo. Non così caotica da sentirsi piccoli, ma abbastanza viva da non morir di noia. Artisticamente parlando, un po’ mi fa ridere. Milano si sente grande. La gente vi approda da ogni angolo d’Italia convinta così di sfuggire al provincialismo. Ma di provincia, Milano, è capoluogo. Qua gli artisti operano in una nicchia. Ad andar per mostre si ha sempre l’impressione di imbucarsi a un raduno di amici che non sono i tuoi. Tutto sempre troppo occupati a darsi pacche sulle spalle a vicenda, per rendersi conto di quanto isolati e marginali siamo all’interno d’un mondo, quello dell’arte, che è già di per sé marginale all’interno del mondo.

Cosa pensi del sistema dell’arte contemporanea?
Sistema è una parola che può incutere timore. Evoca alla mente qualcosa d’antico, rigido e inamovibile. Ma il sistema è in realtà un entità flessibile, una complessa rete tra le cui maglie si aprono continuamente nuovi spiragli. Il lavoro di un artista non è in alcun modo separato dal quel che egli fa per aprirsi un varco all’interno di questi spiragli. Per questo considero affascinante e fondamentale cercar di conoscere il sistema dell’arte nella sua complessità.
Che domanda vorresti ti facessi?
Una di quelle domande un po’ leggere, che si usa fare per smorzare i toni di un’intervista altrimenti troppo seriosi. Una domanda, come questa, che comunque fingerei di aver frainteso per mantenere alto il registro della mie risposte e non dover trovarmi costretto a smettere i panni che mi sono cucito addosso, d’artista coscienzioso ai limiti della noia.
Instagram: gatti.tommaso
Immagine di copertina: Tommaso Gatti al lavoro su LibertyMayBeEndangeredByTheAbuseOfLiberty nel suo studio – Courtesy l’artista
Intervista a cura di Marco Roberto Marelli