CasermArcheologica, spazio culturale sito a Sansepolcro, ha recentemente organizzato un ciclo di incontri sul tema creatività e sostenibilità in occasione del progetto europeo C6 World Erasmus+ , a cui hanno partecipato venticinque ragazze e ragazzi provenienti da Danimarca, Gran Bretagna, Norvegia e Svezia.
A prendere parte a queste cinque giornate, tenutasi dal 5 al 9 settembre 2022, è stata invitata l’artista danese Tina Helen, che lavora a Copenaghen presso il SixtyEight Art Institute.
La performance di Tina Helen, organizzata in questa occasione, ha permesso ai partecipanti al progetto di entrare in relazione con i differenti substrati che caratterizzano la città di Sansepolcro, dalla zona rurale alla zona industriale. Una marcia è avvenuta trasportando un tessuto rosa, che ha creato una sorta di corpo unico e continuo e ha permesso di operare un’indagine collettiva sulle dinamiche naturali e antropologiche che modificano il paesaggio, e su come esse possano mutare i nostri percorsi e i nostri movimenti.
Puoi presentarti raccontando brevemente il tuo percorso e la tua pratica artistica? Quali le tematiche con cui ti sei confrontata maggiormente in questi anni?
Sono un’artista visiva di Copenaghen. Ho conseguito un Master of Fine Arts presso l’Accademia d’Arte di Malmö e un Master of Arts presso la Royal Danish Academy of Fine Arts, School of Design. Ho lavorato a livello internazionale su numerosi progetti e realizzato collaborazioni nel campo delle belle arti e dell’attivismo. Durante i miei anni di attività ho sviluppato un interesse particolare verso varie tematiche: politica urbana, pedagogie (radicali), autonomia, forme collettive dell’essere, autismo, politica dell’immagine e nozioni di cura.
Come hai organizzato la tua performance? Quali sono stati gli elementi fondanti e che valore hanno avuto all’interno del tuo progetto?
L’intervento artistico è stato organizzato con il prezioso aiuto di CasermArcheologica e del mio collega Roberto Ghezzi. Per delineare il percorso della performance, realizzato in un territorio a me estraneo, l’aiuto della gente del posto è stato essenziale. Nel fissare un percorso vi sono aspetti politici, culturali o etici che avrei potuto non cogliere sul momento, in quanto non è il mio contesto locale e perché ci sono conoscenze specifiche che non ho, partendo da nozioni molto semplici, come l’aspetto delle diverse colture nei terreni agricoli italiani.
Volevo che il percorso andasse da un punto A a un punto B, e che il gruppo cercasse di seguire il più possibile la linea retta tracciata sulla mappa. Quando cammino su una strada asfaltata, raramente presto attenzione alla strada o a come il mio corpo si muove rispetto alla città. Quando stabilisco un percorso differente da quello usuale, ecco che mi allontano da un itinerario comodo e prestabilito e prendo coscienza di tutte le scelte inconsapevoli che faccio ogni giorno, di tutti i piccoli gesti che compongono la vita quotidiana e le loro implicazioni altamente politiche.
Per questi progetti/passeggiate è molto importante per me creare un percorso che attraversi spazi urbani e rurali diversi. È infatti necessario imbattersi in aree pubbliche, private, commerciali e industriali, così come in una natura difficile da attraversare, per prendere consapevolezza di come regole scritte e non scritte, esterne o interiorizzate, cambiano con il mutare del paesaggio e del contesto in cui ci troviamo. Ci sono aspettative intrinseche su come possiamo e dobbiamo muoverci in situazioni, paesaggi e gruppi diversi.
È su questo tipo di schemi che questo progetto cerca di creare una consapevolezza corporea. Dove e come ci è permesso muoverci e chi decide per noi? Nel contesto di questo progetto Erasmus+ e della sua agenda sul clima, ho pensato che potesse essere un un buon modo per far luce su alcune delle strutture che controllano le città in cui viviamo e sulle nostre possibilità di movimento. Se vogliamo veramente avere una possibilità rispetto al futuro, non possiamo semplicemente “seguire il flusso” in maniera passiva, ma dobbiamo delineare nuovi percorsi che immaginiamo possano portare a questo cambiamento, anche se ciò ci porta su terreni più conflittuali, complessi e ingarbugliati.
Anche la natura ha una direzione, un suo percorso specifico. Mentre attraversavamo il fiume durante la nostra passeggiata, le correnti ci trascinavano, cercando di convincerci a seguire il corso del torrente. Ogni passo che abbiamo fatto attraverso questa risacca doveva essere preciso e ci richiedeva un certo sforzo per rimanere sul sentiero prestabilito. Il lungo striscione di tessuto colorato era lì per legarci, per renderci consapevoli delle strategie e delle linee di fuga che tracciamo insieme per perseguire un obiettivo comune. È un ostacolo, che complica ulteriormente il viaggio, ma è anche un indicatore visivo e tangibile dello sforzo collettivo dell’intera operazione. Mi auguro che possa costituire una terza presenza che ci renda consapevoli di essere un corpo collettivo che può immaginare e prendere decisioni.
In passato hai realizzato una performance affine a quella svolta a Sansepolcro. Puoi parlarci della differente esperienza vissuta tra la “camminata” a Copenaghen e questa?
Trovo davvero affascinante considerare le due passeggiate insieme. Sono così immensamente diverse sotto molti punti di vista. Ci sono cose che sono state rese possibili a Sansepolcro e che non sono state possibili a Copenaghen, e viceversa. Nella camminata a Copenaghen, il gruppo era molto più piccolo e il percorso conduceva attraverso diverse aree in cui era necessario sconfinare per rimanere sul sentiero. È stato fatto di notte e ha avuto una dimensione più segreta. A differenza di Copenaghen, dove tutti i partecipanti conoscevano il contesto locale, il gruppo di Sansepolcro era molto più eterogeneo, proveniente da aree differenti, parlava lingue diverse, e aveva anche più bisogno di una sorta di guida lungo il percorso. Quando non conosco profondamente il contesto e i partecipanti, è importante che la situazione sia in qualche modo accompagnata, senza lasciare che nessuno si muova all’improvviso dove non è sicuro o dove può creare difficoltà ai partecipanti. Ho percepito un forte cambiamento di situazione tra la marcia di gruppo nella zona rurale, in cui eravamo impegnati ad avanzare tra cespugli e sterpaglia, e gli incontri fatti con altre persone esterne una volta raggiunto il centro urbano.
Il fatto che fossimo un gruppo piuttosto numeroso, che si muoveva nel paesaggio con la piena luce del giorno, e che l’intero evento fosse filmato, ha anche dato ad alcune parti della passeggiata il carattere di una forma di parata d’arte. Il lungo tessuto è diventato in qualche modo portatore di un messaggio, mentre ci imbattevamo nei cittadini locali che ci passavano accanto.
Che valore ha per te la pratica del camminare? E quanto per te l’arte è legata all’idea di collettività?
Ognuno di noi ha il proprio modo di incontrare l’arte e di rapportarsi a essa, ma io mi occupo soprattutto del modo in cui l’arte incontra e riflette la società. Mi interessano le pratiche collettive perché si tratta di riflettere insieme, di creare uno spazio comune in cui ritrovarsi e parlare, collettivamente, innescando confronti.
L’atto di camminare non è qualcosa con cui lavoro in altre opere, ma è davvero il modo in cui incontro e comprendo una città, un’area, un luogo, un nuovo contesto straniero. Una mappa vi insegnerà qualcosa di diverso su una città, rispetto al corpo che si muove attraverso di essa. C’è qualcosa di socialmente più fluido nel camminare. Permette di avere uno spazio diverso per pensare insieme.
Partendo dalle cinque giornate trascorse, cosa ne pensi dell’idea di ricercare un punto d’incontro tra creatività e sostenibilità? Può la creatività aiutarci a vivere la città in maniera più sostenibile, consapevole e condivisa?
Credo di avere un problema di fondo con l’idea di privilegiare l’arte di fronte alla necessità di risolvere le sfide sociali, economiche ed ecologiche. Si incorre a mio parere nel rischio che la creatività renda in qualche modo digeribile quei cambiamenti radicali che devono necessariamente essere tali. Ovvero ci si può imbattere nella situazione in cui queste opere d’arte, pur con tutte le loro buone intenzioni, divengono in realtà dei diversivi, che affrontano sì problemi urgenti, come da premessa, ma senza agire concretamente su di essi. Tuttavia, l’arte permette di creare spazi collettivi di riflessione, imprevisti di intimità e di immaginazione, e credo che possa aiutarci a raggiungere un più profondo grado di consapevolezza, di comprensione e di apertura mentale. Presupposti imprescindibili di cui abbiamo bisogno se vogliamo seriamente cambiare le nostre abitudini e abbracciare un vivere più sostenibile e rispettoso per il pianeta.
Intervista a cura di Anna Masetti,
realizzata in collaborazione con CasermArcheologica
Instagram: casermarcheologica
Caption
Tina Helen durante la sua performance – Courtesy CasermArcheologica, ph Elena Volterrani
Performance di Tina Helen – Courtesy CasermArcheologica, ph Elena Volterrani
Performance di Tina Helen – Courtesy CasermArcheologica, ph Elena Volterrani
Performance di Tina Helen – Courtesy CasermArcheologica, ph Elena Volterrani
Performance di Tina Helen – Courtesy CasermArcheologica, ph Elena Volterrani