The White Hunter. Memorie e rappresentazioni africane

La mostra Il Cacciatore Bianco / The White Hunter è il nuovo capitolo della ricerca intrapresa da FM Centro per l’Arte Contemporanea e dal suo curatore Marco Scotini. Un’indagine riguardante la “decentralizzazione della modernità artistica occidentale” che in questa occasione prende le mosse dal continente africano.
Scotini non intende spiegarci l’Africa, gli africani e le loro pratiche artistiche, la linea curatoriale segue infatti tutt’altra idea: ricostruire e analizzare la creazione ideologica occidentale del concetto di “Africa”, del significato dato ai manufatti ivi creati e del ruolo dell'”artista africano” nel panorama sociale dell’arte. La mostra ci chiama a riflettere sul perché gli occidentali abbiano avuto bisogno di queste “costruzioni” e come gli artisti africani abbiano criticato e tentato di abbattere quest’ottica etnocentrica.
L’ingresso alla mostra simula uno sbarco in Africa, scopriremo in seguito che sì di viaggio si tratta ma di esplorazione immobile, dentro i confini della nostra memoria. Un viaggio immobile perché è la nostra identità ad esserci raccontata attraverso le opere degli artisti africani, a cominciare dall’installazione pensata da Pascale Marthine Tayou: vero e proprio ingresso del turista nella capanna africana, che si scopre luogo degli inganni nel quale niente è quello che sembra e dove non esiste possibilità di contrattare.

The White Hunter
The White Hunter – installation view Room 6, L’autoritratto ibridato / The hybridated self-portrait – courtesy FM Centro per l’Arte Contemporanea, ph Daniele Pio Marzorati

In gioco è dunque il nostro rapporto con l’Africa, che nonostante i revisionismi e i sentimentalismi, prima delle vacanze Alpitour e della politica dell’amante araba, è storia di violenza condotta nel nome della civiltà, della modernità, del Fascismo, dell’Impero, and so on. Questo scomodo passato coloniale ci è raccontato dal video di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Pays Barbare (2013). Qui gli occhi della violenza, delle vittime e dei carnefici, sono catturate dal “mirino” della camera: lo sguardo diventa fattore originario della disuguaglianza, principio costitutivo di una scientifica inferiorità, e dunque, della legittimità della violenza, una violenza che si concreta nelle forme della caccia e di una dialettica tra cacciatore e cacciato.

La sezione dedicata a un’evocativa ricostruzione della sala della “Scultura Negra” della Biennale di Venezia del 1922, qui riproposta dall’africanista Luigi Pezzoli, fa ancora riferimento alla nostra storia coloniale. Trentatré opere provenienti dal Museo Etnografico di Roma e da quello di Firenze vennero presentate nella loro dignità di opere d’arte e non come oggetti di mero interesse scientifico. Una vicenda che all’epoca fu vivacemente criticata e che non ebbe successivi riscontri dato che il 1922 fu anche l’anno della Marcia su Roma.
La sala successiva ci porta al 1989, a Parigi, più precisamente al Centre Pompidou. Viene qui rievocata, grazie alle opere di alcuni artisti che vi parteciparono, Magiciens de la Terre, mostra che per scelte ideologiche è ancora oggi al centro di un dibattito critico che non pare vedere una conclusione. Magiciens de la Terre, secondo le teorie di Jean-Hubert Martin, suo curatore, sarebbe dovuta essere la prima esposizione mondiale di arte contemporanea, riuscendo così a mettere sulla mappa artisti provenienti dall’Africa, dell’Oceania e dal Sud America a fianco degli occidentali. Nonostante il merito di aver aperto un importante squarcio su mondi artistici sconosciuti ai più, la mostra fu criticata fin dal principio per il suo carattere “colonialista” e per l’ossessiva ricerca e ostentazione del primitivo e dell’incontaminato.

The White Hunter
Samuel Fosso – Autoportrait SM14, 2003 – stampa fotografica ai sali d’argento – collezione privata, Roma – courtesy FM Centro per l’Arte Contemporanea

Della decostruzione della visione occidentale dell’”artista africano” parlano le successive sale a partire dall’attività di William Kentridge, che segna un solco per gli artisti africani della nuova generazione grazie alla sua visibilità e al suo riconoscimento a livello internazionale. L’attività di Kentridge è stata fondamentale per alcuni giovani artisti africani di seconda o terza generazione che nati in Belgio, Francia o Inghilterra, che pur non avendo mai vissuto l’Africa nelle loro pratiche artistiche fanno i conti con questa eredità culturale.
Le opere di Yinka Shonibare, Wanghechi Mutu e Abdoulaye Konaté guardano alle fotografie di Malick Sidibé, Seydou Keita e Samuel Fosso creando un dialogo cromatico e generazionale. Il ricamo è un tema importante dell’estetica africana che unisce in questa esposizione le gueules cassées di Kader Attia, il kent di El Anatsui, i musei effimeri e le parrucche di Meschac Gaba, le cuciture impossibili di Nicholas Hlobo, arrivando fino ai sacchi di juta di Ibrahim Mahama, simbolo di viaggio, migrazione e abbandono, ferite di cui peraltro ci parla John Akomfrah nel suo film Mnemosyne (2010). La mostra si conclude con un’opera di Joel Andrianomearisoa, un totem composto da specchietti, perfetto finale per questa riflessione sulla nostra identità, sul nostro passato e presente, nel quale ci riscopriamo cacciatori bianchi.
Quella costruita da Marco Scotini ai Frigoriferi Milanesi è una mostra importante e onesta, che ha il pregio di non essere né retorica né declamatoria pur avendo implicazioni artistiche, politiche e antropologiche complesse.

Elia Gaetano

IL CACCIATORE BIANCO / THE WHITE HUNTER.
Memorie e rappresentazioni africane.

31 marzo – 06 giugno 2017

A cura di Marco Scotini

FM CENTRO PER L’ARTE CONTEMPORANEA – via Piranesi, 10 – Milano

www.fmcca.it

Immagine di copertina: Pascale Marthine Tayou –  La capanna africana – Installation view – courtesy FM Centro per l’Arte Contemporanea, ph Daniele Pio Marzorati