Fino al 23 giungo sarà possibile visitare la quinta, nonché ultima e conclusiva collettiva del ciclo di esposizioni curate dal giovane artista Leonardo Pellicanò. Realizzate sotto la supervisione di Adrian Paci e con la partecipazione di alcuni studenti provenienti dall’Accademia di Belle Arti di Brera e dalla NABA di Milano, le mostre, che prendono ispirazione dal libro The hero’s journey di Joseph Campbell, hanno invaso gli spazi di Fondazione Adolfo Pini, in ognuna delle occasioni espositive stravolti e rigenerati nella dimensione spaziale e semiotica. Due accademie in dialogo aperto, lavori grezzi che vengono messi alla prova attraverso un scontro/incontro con lo spazio. Le singole opere sono frammenti, tasselli di una proposta organica che acquisisce autonomia artistica e diviene di per sé opera d’arte.

Tutto avviene tramite la presenza attivatrice di un display, che possiede valore intrinseco e ridimensiona, in un contesto nuovo, le pratiche degli artisti. Esempio più lampante, l’inserimento della moquette azzurra nella seconda mostra (Belly of the whale), che ha modificato la percezione della tigre in stoffa e cemento di Andrea Noviello (Regina, 2017) e del piede di sabbia di Francesco Puppo (Il prezzo di una camminata a piedi nudi sulla battigia è un letto d sabbia, 2017). Il tappeto non ha soffocato i singoli lavori o creato un’immagine complessiva univoca, al contrario le opere affioravano in un ambiente a metà tra una sala d’attesa e un mare brillante. Il ciclo di esposizioni in Fondazione Pini, differentemente dall’edizione dello scorso anno, ha ragionato attorno ai rapporti di forza tra i lavori e non sulla pratica artistica singola. Si può riscontrare un parallelo con la prima attività del curatore indipendente Harald Szeemann (1933 – 2005), sempre attento all’ubicazione dell’opera, alle distanze tra i singoli lavori e al rapporto tra spettatore e mostra. Nella terza esibizione (The garden moves to keep things Whole) l’intervento Clinamen di Luca Laurora ha risignificato il pavimento attraverso un prolungamento modulare del cortile e segnato una continuità tra interno ed esterno. In quella scacchiera verde, la pittura murale di Mida Fiore (Caccia rupestre, 2018) e la testa animale in terracotta di Andrea Noviello (Senza Titolo, 2018) entravano in dialogo gridando l’immortalità di un immaginario medioevale. Nell’ultima mostra (The ultimate boon) l’ambiente diventa ancora più immersivo e lo spettatore si trova inabissato all’interno di un monocromo blu di pennellate incostanti. La prima saletta, le cui pareti non sono state dipinte, accoglie il lavoro di Francesco Puppo (Voglio Tornare a casa, 2018) una presenza lirica abbandonata che, a metà tra una scultura e un disegno, riposa arresa sul pavimento. Al contempo inizio e fine del percorso, l’installazione è zona di transizione che anticipa la tinta romantica della seconda sala, ma anche spazio di decompressione dall’esperienza nella caverna blu.

I Dardi rossi di Mida sono pensati appositamente per la mostra, escrescenze che aprono un portale e rendono il luogo a metà tra un “Blue Cube” e uno spazio affrescato. Al centro della sala è posizionata una scultura di Silvia Consonni che parte dal ritrovamento, in una bottega, di un oggetto in legno di dubbia provenienza ma sicuramente non industriale. L’artista lo ricostruisce in scala 1 a 5 trasformandolo in una sorta di cenotafio, un monumento funebre al costruttore sconosciuto dell’oggetto o forse alla pratica dell’artigianato in sé. Il lavoro di Matteo Cocco (La pioggia, 2018) è l’incontro di un immaginario mentale dove le maschere popolari, la terra d’origine sarda e i rituali di scarificazione africana, si uniscono sulla tela e generano una pioggia scrosciante e pastosa. I Biondi soldati di Ludovica Anversa, la pittura su legno di Agnese Smaldone e l’autoritratto di Leonardo Pellicanò sono piccole narrazioni, costellazioni di un cielo stellato, che senza rendere ovvia questa operazione chiudono il percorso espositivo in un’unica immagine. Il linguaggio archetipo, l’immaginario senza tempo delle pitture esposte e le continue risignificazioni dello spazio, richiamano le fasi narrative di The hero’s journey, libro di Campbell che sintetizza mitologie e narrazioni folcloristiche. La figura di Leonardo Pellicanò mette in discussione la dicotomia curatore/artista, opera in un terreno ambiguo che può rischiare, se non si rispetta anche la zona interna della singola opera, di imporre nuovi significati. In ogni caso riflette su un format, la collettiva, molto discusso e ultimamente abusato, che spesso non tiene conto delle relazioni tra le singole opere.
Arianna Cavigioli
INCONTRO #18 THE ULTIMATE BOON
Coordinato da Leonardo Pellicanò sotto la guida di Adrian Paci
14 giugno – 23 giugno 2018
FONDAZIONE ADOLFO PINI – Corso Garibaldi, 2 – Milano
Immagine di copertina: The Ultimate Boon – Exhibition view, Fondazione Adolfo Pini, Milano, 2018 – Courtesy Fondazione Adolfo Pini – ph Ludovica Anversa