La nuova edizione di Atlas of Transitions Biennale, programma di eventi promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione a Bologna, torna dal 1 al 10 marzo con una fitta programmazione dal titolo HOME. Interrogandosi sulla migrazione attraverso lo spettro ampio della nozione di “casa”, il festival, curato da Piersandra Di Matteo, ha coinvolto l’artista e attivista cubana Tania Bruguera che presenta due importanti progetti partecipativi: Referendum, una performance, della durata di 10 giorni, che vede l’attivazione di una campgna refendaria urbana rivolta agli abitanti bolognesi, e School of Integration, una scuola di integrazione temporanea le cui lezioni sono ogni giorno della rassegna dedicate alla cultura di un paese diverso.
Tra i progetti da te presentati in questa edizione di Atlas of Transitions vi è Referendum, in cui i cittadini di Bologna sono chiamati a rispondere a questo quesito: “I confini uccidono. Dovremmo abolire i confini?”. Si tratta chiaramente di un tema molto caldo per l’attuale contesto politico italiano. Qual è stato il processo decisionale che ha portato alla formulazione di questa specifica domanda?
In Referendum l’idea è quella di usare la stessa piattaforma impiegata in ambito politico, ma senza la pressione politica del voto. Questo perché spesso, quando le persone vanno a votare, non scelgono i loro candidati ideali. In questo caso, invece, si tratta di votare per sé stessi, senza alcuna conseguenza legale, in quanto non si sta discutendo una nuova legge che entrerà in vigore: si viene chiamati ad essere onesti con sé stessi. Siamo rimasti sorpresi, in alcuni luoghi, nell’osservare che le differenze in termini di voto non fossero troppo distanti l’una dall’altra. Come, per esempio, a New York; si potrebbe pensare che la città sia molto aperta e accogliente nei confronti dei migranti, invece il risultato della campagna referendaria ha mostrato dei numeri molto vicini in termini di preferenze, rispecchiando i sentimenti della collettività.
Nella progettazione di questo evento, mi sono appropriata di alcune strategie e risorse utilizzate in politica, facendo particolare attenzione al contesto di riferimento. La domanda che mi pongo sempre è: “Come si adatterà il progetto al luogo in cui viene realizzato?”. Trovo difficile portare in un posto un quesito generico e imporlo a persone che forse sono attive politicamente in un’altra discussione.
Per scegliere quale fosse la domanda più giusta da proporre alla città di Bologna, Piersandra Di Matteo, la curatrice della rassegna, ha organizzato dei gruppi di discussione attraverso una call pubblica, a cui hanno risposto numerosi attori partecipanti nel contesto cittadino, tra cui gruppi di attivisti, associazioni, realtà che operano nell’ambito dell’accoglienza, migranti e cittadini interessati. Vi sono state tre assemblee cittadine estremamente partecipate, ricche e vivaci, nelle quali si è tentato di formulare una domanda inclusiva, aperta a tutti, ma allo stesso tempo posizionata. Lo statement “i confini uccidono” è una presa di posizione chiara, che lascia però i vari soggetti liberi di collocarsi individualmente rispetto a una domanda che non parla solo di confini geopolitici ma anche esistenziali ed emotivi. Il quesito iniziale era “dovremmo abolire i nostri confini?”; si è poi deciso, nelle assemblee, di eliminare quel “nostri” che già di per sé implica un “loro” e, quindi, un’attitudine separativa. Si è voluto, d’altra parte, salvare il “noi” proprio per indicare che siamo convocati soggettivamente e come collettività a rispondere a questa domanda.
Come accennavi, questo progetto, prima che a Bologna, è stato realizzato anche in altre città del mondo, tra cui San Francisco, New York e Toronto. In cosa consiste il reenactment della stessa performance in tempi e scenari diversi? Che tipo di tematiche emergono in questa operazione?
Riguardo alla performance sono una grande sostenitrice dell’importanza di aggiornare le opere, perché i contesti politici, emotivi e sociali cambiano nel tempo. È molto difficile aggiornare qualcosa che è accaduto, per esempio, negli anni settanta. Alcune tematiche, che allora potevano scuotere l’opinione pubblica, ora sono diventate normali. Perciò è importante, nel mio lavoro, cercare di aggiornare le opere con le nuove sensibilità; tuttavia mi sono resa conto che quando si parla immigrazione il dibattito è sempre allo stesso punto. Sfortunatamente, dopo 13-18 anni, possiamo ancora porci le stesse domande perché la situazione non è cambiata. Questo aspetto è ciò che viene mostrato in questo progetto, lo puoi riproporre nel tempo e ottenere lo stesso tipo di reazione.
È molto interessante questa tua posizione sul reenactment, anche perché è un tema ricorrente nel tuo lavoro. Penso, per esempio, a #YoTambienExijo, che ripropone la performance Tatlin’s Whisper #6
Anche in questo caso, la performance cambiava molto in ciascuna delle città in cui veniva presentata1. Per me non era più interessante riproporre Tatlin’s Whisper #6 – evento in cui si dava la possibilità a ciascun individuo di prendere il microfono in mano e parlare liberamente per un minuto – all’interno di un’istituzione perché la realtà era diventata più intensa dell’opera stessa. Ritengo importante fare dell’arte che sia più intensa della realtà, in quanto la realtà inevitabilmente cambia e il lavoro mano a mano perde forza, rischiando di diventare solamente una brutta copia di essa. In questo senso #YoTambienExijo è per me un aggiornamento di Tatlin’s Whisper #6.
Questi lavori possono essere visti come articolazioni della nozione di Arte Útil (Arte Utile), che prevede l’utilizzo dell’arte come strumento o dispositivo per l’attivazione di modelli sostenibili mirati al cambiamento sociale. Da dove nasce questo tuo approccio?
Come artista, sono molto interessata alla funzione dell’arte. Credo che molte delle domande riguardanti l’arte abbiano già trovato risposta in vari movimenti del passato, mentre, nel momento attuale, per me i quesiti fondamentali sono: a cosa serve l’arte? qual è la sua funzione? perché ne abbiamo bisogno? Con questo non intendo che non ne abbiamo bisogno, anzi, tutto il contrario, ritengo sia importante capire perché fare arte.
L’Arte Útil, discostandosi profondamente da un tipo di approccio puramente neoliberista, non intende trovare soluzioni a determinati problemi. Il suo scopo è quello di trovare dei modi possibili per funzionare all’interno della società.
L’idea nasce, in primo luogo, dalla mia esperienza personale: sono cresciuta in un momento storico in cui le persone ancora credevano fermamente nella Rivoluzione cubana, anche se era un’utopia. C’era un clima di estrema fiducia e speranza nel futuro, quando forse non vi erano neanche le condizioni per tale entusiasmo. Questa idea deriva anche dallo sconforto che ho provato quando ho iniziato a lavorare e a esporre in Occidente: sono entrata in crisi perché il mio lavoro non era commerciale, sentivo dentro di me una forte contraddizione perché percepivo che la funzione dell’arte veniva assegnata in una maniera del tutto convenzionale e predeterminata, mentre la mia ricerca aveva a che fare con il sociale e la politica. La situazione attuale è molto diversa da quella di vent’anni fa, quando si viveva nella bolla del benessere. Adesso, il contesto è diventato talmente drammatico da innescare una serie di attitudini verso un’arte politica.
Il concetto di Arte Útil pensavo di averlo inventato io, in realtà non è così. Ho scoperto negli anni che un intellettuale argentino, Eduardo Costa, ha scritto un manifesto sull’arte utile nel 1969 e che anche l’artista italiano Pino Poggi ne ha realizzato uno nel 1965. Recentemente ne abbiamo trovato menzione in uno scritto dell’architetto messicano Juan O’Gorman, che risale al 1933. Il fatto che diversi individui ne abbiano discusso nel corso del tempo significa che si tratta di un problema ricorrente ma ancora irrisolto: questo dà ancora più forza e rilevanza a tale concetto. Riguardo Pino Poggi, mi ritrovo molto nelle sue formulazioni teoriche estremamente lucide ma ho notato che, nella pratica, il suo lavoro era molto diverso dai suoi scritti. Tuttavia, non trovo questo aspetto affatto strano perché il linguaggio dell’arte si sviluppa più lentamente rispetto alle idee. È capitato anche a me nel caso della School of Integration; era un progetto a cui avevo iniziato a pensare intorno al 2005 ma che non avevo cominciato allora perché sentivo che non fosse il momento giusto per farlo affiorare.
Riguardo la School of Integration: in questo caso hai proposto l’istituzione di una scuola temporanea, modellata sulle scuole di integrazione rivolte ai gruppi di migranti, ribaltandone le prospettive, in quanto, le lezioni vengono condotte da membri delle comunità straniere residenti a Bologna. Non è la prima volta che la tua pratica artistica ha a che fare con l’istituzione di una realtà mirata a presentare un’alternativa concreta a ciò che esiste, penso a Cátedra Arte de Conducta. Qui l’istituzione ha una temporalità ben definita, che si esaurisce in dieci giorni. Che effetto pensi o speri abbia questo progetto artistico sul tessuto cittadino?
Le scuole d’integrazione, comunemente e formalmente intese, hanno più a che fare con l’assimilazione culturale che con l’integrazione vera e propria. L’arte ha una limitazione fondata su quanto sia realmente possibile fare a livello istituzionale. Invece che prendermela con le istituzioni, la mia reazione è quella di costruire nuove opzioni attraverso una sorta di critica costruttiva, nella speranza che chi di dovere rifletta e provi a incorporare il lavoro nella propria pratica, o, semplicemente, a innescare una discussione. Il lavoro dura solo dieci giorni perché l’arte può funzionare come esempio. Una possibile conseguenza positiva di questo progetto sarebbe quella di rinsaldare ancora di più i legami fra le diverse realtà attive nel contesto bolognese.
Il progetto alla Tate Modern si è appena concluso, ora sei impegnata in questa rassegna. Che cosa hai in programma per il prossimo futuro?
Riproporremo questa scuola al Manchester International Festival, dopo questa première bolognese. Nel frattempo sto lavorando contro il decreto 349; è una grande battaglia. Ci tengo a precisare che non vogliamo boicottare la Biennale dell’Avana, vogliamo che ci sia solidarietà fra le persone, anche se credo sarà difficile, abbiamo già provato a contattare alcuni artisti che ci hanno risposto che non si tratta di un loro problema. Invece, si tratta eccome di un loro problema perché ormai il mondo è interconnesso. Siamo appena venuti a sapere che l’Uganda ha creato un decreto simile per controllare gli artisti, credo che, purtroppo, questo fenomeno si espanderà se le persone non si posizionano contro le ingiustizie. Inoltre, mi sto occupando di un altro progetto che spero andrà in porto e che consiste nel proporre un candidato senza permessi alla presidenza degli Stati Uniti.
a cura di Ginevra Ludovici
1) Tatlin’s Whisper #6 è una performance partecipata – presentata per la prima volta alla Biennale dell’Avana nel 2009 – in cui i cittadini cubani venivano invitati a salire su un palco per esprimere la propria opinione riguardo il contesto politico locale. L’artista ha tentato di riproporre la stessa performance nel dicembre 2014 sotto il nome di #YoTambienExijo, provando ad aggiornarla rispetto al clima politico del paese in quel determinato periodo. Il luogo della performance sarebbe dovuto essere Plaza de la Revolución, sede iconica della capitale cubana, ma l’artista fu detenuta dalle autorità statali prima della realizzazione dell’opera. In segno di protesta, diverse città hanno ospitato #YoTambienExijo, tra cui New York, Londra, Miami e Los Angeles.
Atlas of Transitions Biennale | Home
Realizzato da Emilia Romagna Teatro Fondazione e da Piersandra Di Matteo
01 marzo – 10 marzo 2019
Atlas of Transitions – Arena del Sole – Via dell’Indipendenza, 44 – Bologna
Instagram: taniabruguera
Caption
Tania Bruguera – Courtesy CHEAP street poster art, ph Michele Lapini
Incontro con Tania Bruguera – Courtesy Emilia Romagna Teatro Fondazione, ph Enrico De Stavola
Tania Bruguera – Courtesy CHEAP street poster art, ph Michele Lapini