La sottrazione è sempre il gesto più difficile. Togliere e svuotare per dare un senso. Rimuovere dalla materia parte della forma ottenuta, attraverso il processo della sua realizzazione proprio quando l’opera appare conclusa, effettuare un taglio netto, definitivo, che produce un’assenza, un’informe immagine che sembra interrotta, sospesa e incompiuta. È attraverso quel gesto che si rivela l’opera, in quel sezionarla per cercare nuove prospettive spaziali, nel vuoto creato che diventa presenza nella sua indisponibilità. Una nuova architettura, con una sua dimensione fisica e concettuale, che attende anatomie e pensieri non ancora formati, uno spazio inclusivo che sottende alla rigenerazione.
Per T-Yong Chung (Tae-gu, 1977), sud coreano ma stabile a Milano, un pensiero naturale e insito nella cultura da cui proviene che ha in sé una profondità, una capacità di addentrarsi in ragionamenti e concetti legati all’idea di equilibrio e armonia tra vuoto e pieno. Aspetti ambivalenti ma indivisibili che generano un’osmosi (im)perfetta in cui le forme trovano nuovi spazi. L’artista costruisce un equilibrio (anche reale) tra i lavori e lo spazio o “il soggetto come spazio” per rifarsi al titolo della personale The subject as space, fruibile presso Renata Fabbri arte contemporanea fino al 2 novembre e accompagnata da un testo critico di Rossella Farinotti.
In mostra una selezione di opere (alcune inedite), tra cui sculture, busti, maschere e vasi di vari materiali (gessi, ceramiche, resina, cera, bronzo), calcografie su tessuto, lavori su carta e cemento, a dimostrazione della conoscenza tecnica e delle sue abilità.
Un percorso elegante e raffinato in cui il linguaggio potente nella sua resa minimale descrive l’essenza delle cose attraverso processi di separazione e divisione che generano il difetto apparente. Fratture che nascono dall’incontro con la materia portata alla sua massima tensione e espressione, che trovano formulazioni percettive e sensoriali che oltrepassano l’idea stessa della forma. L’opera si trova così collocata in una fase liminale in cui perde la sua rappresentazione originaria per via delle alterazioni formali praticate dall’artista, che seziona a mano i suoi ritratti una volta conclusi. I volti dei soggetti appaiono non perfettamente identificabili, artefatti, contribuendo a creare un senso di incompiutezza e producendo uno scollamento dalla realtà nel tentativo di giungere a un’alterità (nel suo significato filosofico e culturale).
Gli ambienti della galleria, nella loro candida essenza, si apprestano a diventare un acquario, visibile già dalle grandi vetrate all’esterno, in cui le opere fluttuano con movimenti apparenti come in Somebody around column, 2019 o reali, prodotti dai veli stampati come in Contact, 2018. La prima è costituita da elementi diversi, lucidi vasi e busti di ceramica, appoggiati per terra in una posizione di provvisorietà. Ai lati, sulle pareti diametralmente opposte, la seconda, calcografie su tessuto costituite da tre strati leggeri con stampe di figure geometriche o che disegnano i confini di vasi, dai toni confetto, e, a lato, opere su carta e su cemento. Un lavoro legato all’idea del contatto non solo inteso come una condivisione di informazioni ma soprattutto nella sua definizione segnica di con-tatto riferito all’idea della delicatezza dell’incisione (che è il tema dello sviluppo del progetto). Un gioco di equilibri, di sovrapposizioni di segni e simboli in cui permane questa sensazione di leggerezza (solo apparente perché il lavoro ha un peso specifico, concettuale e processuale).
Leggerezza che racconta anche una gipsoteca contemporanea, presente nella sala successiva con sculture di gesso, prelievo da un’iconografia di gusto classico greco-romana. Rigorose nell’allestimento su plinti sono però alleggerite dalla restituzione formale che l’artista ne fa, declinandola nei toni pastello del verde e del rosa, che si alternano alla tradizione del candido bianco, e praticando quei tagli. Immagini che si apprestano a divenire un nuovo paradigma grazie a quelle fattezze e al cromatismo delicato, che caratterizza anche le maschere in resina appese al muro come Sophie (Maschera), Maschera greca e Marcello (Maschera), tutti lavori recenti.
Un’alternanza di movimento e rigore, come dispositivo scenico scelto, che si ripete anche nelle sale sotterranee. In quella più piccola ritroviamo l’installazione Contatc 2, 2018 e i lavori su carta, mentre, isolate nell’altra stanza, le due versioni di Joo Kim. Due busti femminili (ritratto della bellissima moglie) di cui una in cera verde e l’altra in bronzo con inserti di metallo color oro, privati della loro identità, che si offrono allo sguardo dello spettatore nella loro apparente austerità.
La sintesi tra culture (quella di origine e quella di appartenenza) e l’equilibrio tra pensieri e rapporti ambivalenti sono alcuni degli aspetti della ricerca di T-Yong Chung; conseguenza di una determinatezza (e di una tecnica) che non appare mai violenta o forzata, ma al contrario è ingentilita da quel fare garbato, dal rispetto nei confronti della materia e della storia, come frutto di una sperimentazione artistica che è prima di tutto il risultato di una ricerca interiore. Una personale discreta, quella presentata a Milano, il cui rumore è quello dell’assenza in grado di riempire un vuoto estetico, concettuale e umano. Una mostra tra le più eleganti di questo inizio di stagione.
Elena Solito
T-YONG CHUNG
The Subject as space
16 settembre – 2 novembre 2019
REANATA FABBRI arte contemporanea – Via Stoppani, 15/c – Milano
Instagram: renatafabbri
Caption
T-Yong Chung, The Subject as Space, 2019 – Installation view, Renata Fabbri arte contemporanea, Milano – Courtesy Renata Fabbri arte contemporanea, ph Bruno Bani
T-Yong Chung, Contact 8, 2018 – Calcografia, cm 58×78, Courtesy the artist and Renata Fabbri arte contemporanea, ph Bruno Bani