Spazio In situ nasce a Roma, sotto iniziativa di un gruppo di giovani artisti (Christophe Constantin, Marco De Rosa, Roberta Folliero, Andrea Frosolini, Francesco Palluzzi e Elisa Selli). Si è da poco conclusa la mostra Porta e Finestra, non-evento con la firma di Christophe Constantin e Marco De Rosa. Porta e Finestra è l’ennesimo capitolo di una ricerca collettiva che si rivolge al banale, al quotidiano, alla realtà entro la quale l’opera si insinua, con interventi spesso minimi e irriverenti, in un giocare serio con il contesto circostante.
Lo scenario nel quale Spazio In Situ si inserisce è il quartiere di Tor Bella Monaca, nella periferia più tristemente nota della Capitale; siamo lontani dalla Roma dei musei e delle gallerie, dalla Roma dei turisti. In qualche modo siamo nella Roma più reale o più realista; Tor Bella Monaca è infatti un quartiere che ben conosce le contraddizioni di questa città eterna, stratificata, fatta di tante piccole città.
Sono entrata per la prima volta in questo spazio durante dei “lavori in corso”; stavate preparando Porta e Finestra e mi avete fatto fare un giro dei vostri studi. Chi visita le vostre mostre si trova però davanti a uno scenario totalmente diverso, dei pannelli circoscrivono lo spazio espositivo, negando la vista sugli studi e privilegiando un’estetica minimal, da White Cube. È un’operazione radicale e una presa di posizione forte nei confronti dello spazio, del quale si ribalta con un gesto non solo l’aspetto, l’estetica, ma prima di tutto la funzione e l’appartenenza. Qual è, secondo voi, l’identità della vostra sede espositiva?
Spazio In Situ nasce come studio, la produzione di opere è alla base della sua identità. Gli artisti che ne fanno parte s’incontrano e dialogano – come le loro realizzazioni – in un open space propenso alla contaminazione. Si sentono, in tutto quello che ne esce, delle interrogazioni comuni sulla realtà contemporanea e una voglia collettiva di confrontarsi con essa. Lo spazio espositivo permette, fuori mostra, di produrre opere di grandi dimensioni e di fotografarle nelle migliori condizioni. Le mostre capovolgono totalmente lo spazio, passando dal casino più totale della produzione artistica alla pulizia della white cube; il luogo di creazione diventa lo spazio di presentazione, non è più uno studio ma una galleria con tutto il rigore espositivo che essa richiede. In un certo modo le mostre danno ritmo alle nostre stagioni, lo spazio muta, si ripulisce di tutto, si rimbiancano i muri, si cancella qualche macchia e si spostano pareti secondo i desideri degli artisti. È un momento affascinante quello della trasformazione di questa sede, lo spazio è messo sotto pressione, grande discussione sulla scelta delle opere, e della loro posizione, come si contaminano, come usare al meglio lo spazio per lasciar dialogare i vari pezzi che compongono l’esposizione senza nemmeno levargli la loro autonomia; molte volte è successo che delle opere nascessero durante l’allestimento. Questa trasformazione di statuto necessita un grande sforzo e il pubblico lo sente sia durante sia fuori mostra. Spazio In Situ è una galleria e uno studio d’artista, questa bipolarità fa parte della sua identità ed è forse questo l’aspetto più in linea con la contemporaneità che viviamo.

Si tratta poi di un progetto che già dal titolo rivela una certa attenzione verso lo spazio, il contesto, entro il quale l’arte si genera e prolifera. Mi sembra quindi doveroso ricordare la collocazione di questo spazio espositivo; parliamo infatti di in un quartiere difficile com’è quello di Tor Bella Monaca, nel contesto di per sé singolare di una città come Roma. Cosa vi ha portato in questo quartiere e quali sono gli ostacoli più grandi che avete incontrato durante i mesi di messa a punto del progetto?
All’inizio era importante trovare uno spazio grande e accessibile a tutti, vivendo tutti nella periferia Est di Roma, le nostre ricerche si sono subito indirizzate in questa zona. La vicinanza della metro C è stata decisiva, anche se i preparativi per l’apertura della stazione San Giovanni hanno reso quest’ultimo anno abbastanza difficile. Era già una grande sfida portare la gente dell’arte fuori dal GRA ma con la metro che chiudeva alle otto di sera per più di sei mesi, è stata una missione suicida. Per quello che riguarda il poter lavorare, ci sentiamo più fortunati di chi ha lo studio in centro, abbiamo ingrossi per qualsiasi materiale nelle vicinanze, quindi guadagniamo tantissimo tempo. In più Tor Bella ha la sua collezione di assurdità che la rende simpatica, quando la gente locale viene a vedere una delle nostre mostre, escono perle che ci stimolano a plagiare la realtà di questa zona; all’inaugurazione della mostra di Marco De Rosa, Work in progress, la moglie del vicino garagista ci ha chiesto “Ma la mostra n’do sta?”, questo ha fatto sviluppare nella pratica artistica di certi membri un particolare interesse per la banalità e per il non-spettacolare. La location di In Situ ha portato un occhio nuovo nella produzione e nelle interrogazioni di tutti i membri, cercare questa freschezza che un luogo come Tor Bella Monaca può avere, discutendo con gente che di arte contemporanea non se ne intende e scherzando con loro, facciamo il ponte tra il mondo reale e il mondo dell’arte. E la stessa cosa all’inverso, portare il mondo dell’arte da noi diventa una gita, qualcosa di assurdo, chi è già venuto in questa zona ci racconta la sua prima volta a Tor Bella, come se fosse una cosa unica e magica. Trovarci qui non è facile tutti i giorni, ma devo dire che aggiunge una chiave di lettura per capire l’identità dello spazio e non si poteva trovare di meglio, il viaggio per venire fa già parte della messa in scena.
Roma è una città ricca di stimoli e al tempo stesso dispersiva. Cosa significa portare il pubblico delle gallerie fuori dal circuito ufficiale?
Non è facile, come detto prima il Grande Raccordo Anulare è un limite nella mente romana. Per poter diventare una realtà concreta del panorama artistico della capitale, non si può fare un passo falso, stiamo riuscendo a fidelizzare il nostro pubblico, cercando di presentare ogni mostra con la massima cura, portando una visione nuova di cosa deve diventare l’arte. Un artist run space in periferia è fuori limiti sia geograficamente sia per il suo statuto. Un tale spazio non ha un vero regolamento, delle istruzioni da seguire, sembra avere una quantità di libertà che altre realtà dell’arte non hanno ma, alla fine, serve rigore e coerenza nello scegliere cosa presentare e come presentarlo. Il più difficile è seguire questa linea senza fare compromessi, troppi spazi di Roma, nati forse come il nostro o con lo stesso scopo, non sono riusciti a tenere una linea, passando dall’associazione culturale alla discoteca alla moda. Diventare uno spazio d’arte non lascia tante libertà come può sembrare, ma porta tante soddisfazioni. Il primo anno di mostre è stato pieno di sorprese e di fatica, e lo sarà sicuramente ancora per un po’ di tempo, ma i risultati ci sono e speriamo che continueranno durante le prossime stagioni.
Si legge spesso nei vostri comunicati stampa di un curatore che non si vede mai alle vostre inaugurazioni, un certo Porter Ducrist; ce ne volete parlare un po’?
Porter è uno spirito libero, non si definisce neanche lui come curatore, anche se azzecca sempre quello che l’artista prova a dire. È un critico, prende in giro tutto quello che vede ed è qualcosa che condividiamo con lui. È venuto a renderci visita quando lo spazio era appena aperto, gli è piaciuta la zona, quello che si creava qui ed è entrato a far parte del progetto. Anche se non c’è durante le inaugurazioni, la sua presenza si può sentire, i testi che scrive riflettono sempre le nostre preoccupazioni, il fatto che sia presente o no alle mostre non è importante.

Nel 2017 la mostra In da place, una vera e propria riflessione sullo spazio espositivo. Raccontateci un po’ questo progetto.
In da Place è stata una grande interrogazione sullo spazio in cui lavoriamo, quindi sulla sua identità. I lavori erano una sorta di traduzione formale di quello che era lo spazio In Situ. Le opere tendevano a sparire per dare tutta l’importanza al luogo, mettendolo in valore, sin dal viaggio compiuto dello spettatore, presentato sull’invito con un QR code che apre Google Maps con, come destinazione, Via San Biagio Platani, 7. È stata una mostra cruciale per lo spazio, perché era la prima collettiva dopo aver preso confidenza con esso. Elisa Selli ha amplificato il suono dei tubi di scarico del palazzo, che attraversano il nostro spazio. Marco De Rosa ha tracciato le quote su dei dettagli architettonici, la progettazione e la realtà erano quindi messe a confronto. Christophe Constantin ha ridipinto di bianco un muro bianco, ponendo l’accento sul senso del gesto artistico in un white cube; il robot cleaner di Roberta Folliero girava in mezzo allo spazio, portando lo sguardo dello spettatore sul pavimento; Francesco Palluzzi si è concentrato sulla finestra e la sua grata e su come siano esse primordiali per tenere un legame temporaneo con la realtà. Chiara Fantaccione, residente per qualche mese nel nostro spazio, ha presentato un video della serranda, spettacolarizzando la sua apertura. Era tutto vuoto, ma era pieno di contenuto, è stato un bell’esperimento e si rifarà.
Cosa dobbiamo aspettarci da In Situ nel futuro più prossimo?
Il 2018 sarà un anno bello carico per Spazio In Situ. Si sta chiudendo il ciclo di Assurdità Contemporanee e ci sarà una collettiva su questo progetto a settembre, alla Temple University. Dopodiché lo spazio presenterà un ciclo di quattro mostre, invitando artisti svizzeri, per questo vi diamo appuntamento a dicembre. A ottobre presenteremo una collettiva sul modello di In Da Place, inaugurando un nuovo spazio e introducendo i nuovi artisti-acquisiti di In Situ. E poi vedremo.
Intervista a cura di Alessandra Cecchini
CHRISTOPHE CONSTANTIN – MARCO DE ROSA
PORTA E FINESTRA
Testo critico di Porter Ducrist
12 maggio – 20 maggio 2018
SPAZIO IN SITU – Via San Biagio Platani, 7 – Roma
Immagune di copetina: Porta e Finestra – Installation view, Spazio In situ, Roma, 2018 – Courtesy Spazio In situ