“Ciao Giovanni, sei in studio?” Dialogo con Giovanni Frangi

Ci conosciamo ormai da tantissimi anni, eravamo ancora studenti all’Accademia di Brera e tu facesti una mostra personale alla Galleria Bergamini, eri ancora studente anche tu?

La mostra alla Bergamini se ricordo bene era nel 1986, quindi avevo appena finito l’Accademia ed è stata la mia prima mostra a Milano.

Un esordio molto favorevole, era una delle migliori gallerie dell’epoca.

Una galleria molto importante, la mostra era composta da una serie di quadri che rappresentano delle finestre, delle sedie e dei tavoli, si sentiva l’influenza di Giulio Turcato. È stata curata da Achille Bonito Oliva e fu per me un’occasione speciale. Avevo avuto un inizio molto figurativo, ma in quell’occasione mi ero dedicato per alcuni mesi a una serie di opere cromaticamente molto forti, quasi dei monocromi. Giovanni Agosti, il curatore della mia mostra Prêt-à-porter, attualmente in corso a Pistoia, più di una volta mi aveva chiesto di provare a creare dei dialoghi tra opere di diversi periodi, ed era affezionato proprio a quei quadri, quindi oggi due di quelle finestre sono vicine a degli stendardi del 2014. Apparentemente sembrano distanti, mentre in realtà si scopre una continuità fra opere del 1986 e del 2014. Per me è stata una sorpresa anche perché sono tanti anni di differenza.

Noi che eravamo i tuoi compagni d’Accademia rosicavamo per il tuo sfolgorante successo e i più maligni asserivano che avevi fatto quella mostra perché eri il nipote di Testori.

Che io fossi il nipote di Giovanni Testori era noto a tutti, sono anche nato il suo stesso giorno, il 12 maggio, sicuramente nei miei esordi mi ha dato dei vantaggi, ho viaggiato, ho visto un sacco di mostre in anteprima perchè lui in quel periodo scriveva per il Corriere, ho avuto la possibilità di conoscere persone importanti, quindi può darsi che anche Pier Paolo Ruggerini, uno dei soci della Galleria Bergamini, l’avessi conosciuto grazie a Testori, non c’è niente da nascondere, ma ho conosciuto anche Luca Crippa, il mio professore di decorazione, tramite Testori. Ero molto giovane con Testori avevo un rapporto proprio fraterno, ci vedevamo spessissimo, per cui era inevitabile che girando con lui mi si aprisse un mondo.

Giovanni Frangi
Albatros, 2010 – olio su tela, 200 x 260 – courtesy Giovanni Frangi

Hai sempre osato nella tua attività artistica, non ti sei accontentato di fare il pittore e ti sei preso dei bei rischi con delle mostre installative, ricordo Nobu at Elba e View Master a Firenze, ti parlo di quelle che ho visto. Questo perché ritieni che la pittura non ti basti?

Un giorno mi sono reso conto di come fosse interessante affrontare il problema della pittura rispetto all’ambiente. Creare un dialogo fra quadri diversi mi sembrava desse più forza al lavoro e riflettere sul luogo espositivo è diventato un mio modus operandi. Nel caso della mostra di Villa Panza, la situazione era un po’ diversa in quanto avevo in testa di dipingere quadri neri e di creare una sorta di ambiente “nero”. Nel mio studio avevo realizzato una piccola camera tutta nera, quando Giuseppe Panza venne in studio ne fu colpito e la trovò vicino alla sua sensibilità. Ci fu una gestazione lunga due anni per giungere alla realizzazione della mostra che avvenne nelle sale delle scuderie della villa restaurate da Gae Aulenti. Lo spazio che avevo a disposizione risultò molto più grande di quello del progetto iniziale, e quindi dovetti traslocare in un capannone dove realizzai in tre mesi quattro grandi tele che andarono a coprire l’intero perimetro dell’ambiente. Una volta allestita la mostra sentii la necessità di variare l’intensità della luce, ogni 7 minuti lentamente arrivava il buio totale, un escamotage elementare ma molto efficace, potevano entrare trenta persone per volta e spesso c’era anche la coda.

C’era anche un sonoro se ben ricordo.

No, non c’era, avevo pensato di metterlo, in realtà l’ho messo soltanto in un’altra situazione a Bergamo, all’Oratorio di San Lupo, dove il mio intervento si integrava con dei suoni della natura, uno scrosciare di torrente e l’abbaiare di cani di Bannio Anzino.

Dai primi soggetti che erano le periferie e i ritratti, ti stai spostando verso l’astrazione, i riferimenti figurativi mi sembrano sempre più essenziali e pretestuosi.

A questo proposito sto partecipando alla realizzazione di una serie di piccoli volumi dedicati ad artisti della mia generazione che sta progettando Massimo Kaufmann, e il concept di questi volumi è che siano curati da un altro artista, nel mio caso Marco Cingolani. Ieri Marco è stato qua in studio, ha posto l’accento sul fattore dell’evoluzione, su come il mio lavoro sia mutato negli anni. Stiamo selezionando una ventina di immagini che illustrano questa storia. Per me è un processo graduale e molto spontaneo. La sorgente ispirativa resta la stessa, nel senso che io cerco di trasformare un’immagine utilizzando la pittura. Se agli inizi mi sono molto concentrato sul ritratto e sul paesaggio urbano, è da circa vent’anni che le mie informazioni le cerco quasi esclusivamente nella natura, partendo sempre da foto scattate da me, e a volte il risultato può sembrare quasi astratto.

Non hai mai sofferto la solitudine della creazione artistica, ti piacerebbe che il tuo lavoro fosse frutto di un collettivo?

In questo momento è entrato un signore che si chiama Giancarlo che mi ha dato una mano a realizzare la mostra di Pistoia, ho avuto dei ragazzi che mi hanno aiutato, ma più che altro ho bisogno un aiuto di tipo fisico, e morale. Qui si trattava di realizzare degli arazzi di 7 metri per tre e da solo non ce l’avrei mai fatta.

Ma a un progetto collettivo non hai mai partecipato?

Ho lavorato molto con Giovanni Agosti, molte mostre sono state pensate insieme, ma il suo o quello di altri è un supporto solo teorico, non soffro di solitudine quando sono di fronte a una tela, i problemi so che me li devo risolvere da solo.

Giovanni Frangi
Visto dal Mare, 2016 – 140 x 100 cm – courtesy Giovanni Frangi

Hai avuto comunque degli ottimi assistenti.

C’è stato un periodo in cui sono stati da me, in anni diversi, Riccardo Gavazzi, Teo Negri e Paolo Maggis, ognuno di loro ha preso la propria strada e sono ormai adulti.

Tornando ai tuoi esordi, hai partecipato alle mostre dell’Officina milanese, che ne è stato di quella esperienza?

L’Officina milanese è stata creata da Alessandro Riva in relazione ad Alfredo Paglione che era il proprietario della Galleria Appiani 32. Furono fatte due o tre esposizioni con quel nome, in realtà i partecipanti a quell’esperienza erano miei amici prima e lo sono ancora adesso, e in quel periodo trovammo una sinergia sul tema del paesaggio urbano, quelle mostre ebbero un senso in quanto furono la visione di quattro artisti all’incirca coetanei che guardavano la città. Ora tutti noi abbiamo preso una nostra strada quindi non parlerei di un vero e proprio gruppo.

Non avete mai avuto la tentazione di firmare un manifesto?

No, assolutamente no, secondo me è stato un episodio importante, sono tutti artisti che stimo, ma non è mai stato un vero e proprio gruppo. Penso che i gruppi siano importanti quando si è giovani per consolidare le basi del proprio lavoro e lo suggerisco sempre ai ragazzi dell’Accademia che vengono a trovarmi. Nel periodo di Officina eravamo già troppo grandi, con percorsi individuali già avviati. Per me è stato diverso qualche anno prima con Faini, Crocicchi, Verdi e Mehrkens eravamo quasi fratelli, ci sentivamo tutti i giorni e ci siamo anche molto divertiti in un bar di Corso Garibaldi che ha chiuso da un pezzo, il bar Fossati. Ogni sera eravamo lì.

Non hai mai pensato a un quadro dove prevalga il contenuto, non credi al ruolo sociale dell’arte?

Credo sia un problema molto importante, un artista deve affrontare queste situazioni. Ad esempio oggi sul dramma degli immigrati ci sono artisti che sanno dire la loro. Il caso Ai Wewei è emblematico, quando ho visto la fotografia di lui disteso sulla spiaggia come il bambino morto, a me, di primo acchito, ha infastidito. Mi sembrava fosse un sopruso rispetto a un fatto tragico, però, in realtà, il suo lavoro ci fa riflettere. Ho visto la mostra a Palazzo Strozzi nei mesi scorsi e li capisci quanto sia grande la sua capacità di trasformare un fatto storico in un momento poetico. Un altro caso molto interessante è quella di Corrado Levi quando ha indossato una sull’altra le magliette dei profughi abbandonate su un’isola greca Il mio lavoro però ha scelto un’altra strada, se dovessi dare una risposta a queste problematiche sarei un po’ fuori registro. Credo che la forza di un artista sia anche quello di delimitare il campo d’azione e io ho scelto di crearmi dei limiti e di lavorare all’interno di quelli.

Non hai mai sentito come Picasso l’esigenza di dipingere una Guernica?

No, perché non ne sarei capace o sbaglierei, forse potrei usare delle immagini fotografiche.

Vogliamo tornare su Agosti, è colui che ha curato la maggior parte delle tue mostre, come è nato il sodalizio?

Ho conosciuto Giovanni Agosti quasi vent’anni fa, avevo vinto un premio della Quadriennale che consisteva nella realizzazione in una mostra nelle sale di Vicolo Valdina della Camera dei Deputati e gli chiesi se voleva scrivermi un pezzo, così è stato e d’allora abbiamo fatto credo dieci mostre insieme. C’è stata sempre una grande sinergia fra di noi, mi ha aiutato perché ha una mente molto lucida, anche nel caso dell’ultima mostra, a Pistoia il suo contributo è stato fondamentale perché abbiamo creato una storia di dodici ambienti, dove ognuno ha un’identità molto precisa. In questo caso i testi scritti da lui, che sono esposti in ogni stanza, per quanto possano essere distanti dalle mie intenzioni iniziali, sono dei riferimenti che aiutano la lettura delle mie opere, dando delle diverse coordinate. Quello con Agosti non è mai stato un rapporto superficiale, ma un dialogo costante, frutto di un lavoro in comune.

Giovanni Frangi
Jaipur, 2016 – 298 x 639 cm – courtesy Giovanni Frangi

A questo punto illustrami meglio quest’ultima mostra.

Prêt-àporter è una mostra divisa in maniera netta in due parti, una colorata e una in bianco e nero. La predisposizione del secondo piano del Palazzo ci ha suggerito questa idea di legarla a due degli edifici più importanti della città, la Chiesa di sant’Andrea e l’Ospedale del Ceppo. Il mio lavoro si è da tempo confrontato su questi due binari cromatici quindi è stato facile trovare il materiale. Comunque sei stanze guardano verso la Chiesa di Sant’Andrea che ha una facciata monocroma dunque i lavori esposti sono tutti in bianco e nero. Mentre le altre sei stanze si affacciano sull’Ospedale del Ceppo col fregio robbiano sono tutte ipercolorate. Solo due opere inedite, realizzate appositamente, una è una sorta di visore, una scultura che sembra un juke box messo di fronte a una finestra in cui guardi dentro

Il View-Master!

Esatto, ritorno un po’ al View-Master, per cui guardi in un buco dove ho posto un binocolo, che era di mio padre, girato al contrario e da lì osservi la chiesa di Sant’Andrea trasformata dal mio intervento. L’altra stanza fatta ad hoc s’intitola Jaipur, le pareti sono interamente ricoperte da dei grandi stendardi che ti danno la sensazione di entrare in una tenda indiana. Un segno gira intorno alle pareti e raffigura una specie d’arcipelago, con un cromatismo estremamente accentuato, sono dei colori gialli, aranci, rossi intensi quasi inebrianti.

Dove pensi di arrivare? Che obiettivi ti sei dato? Hai fatto mostre ovunque, cosa ti auguri?

Da nessuna parte, per il momento sto fermo. Ho appena fatto la mostra Settembre a Palazzo Poli a Roma di fronte alla Fontana di Trevi, Usodimare al Camec di Spezia, adesso ho inaugurato Prêt-àporter a Palazzo Fabroni che chiude il 2 aprile. Faccio questo piccolo libro per Kaufmann,poi per un po’ mi calmo, ricarico le pile.

Ma il sogno qual è?

Non lo so di preciso, ogni mattino mi sveglio con un sogno diverso, quindi i miei sogni sono tanti.

www.giovannifrangi.it

 

LORIS DI FALCO – SEI IN STUDIO ?