Un lettino per la psicoanalisi e le gambe di una donna; due braccia distese a terra intente a scrivere “chissà che cosa” tra le pagine di un quaderno intonso. Opere disposte come piccole certezze ormai desuete, allestite secondo un ordine ambientale, frammenti di una vecchia storia che segnano le interpunzioni di un impianto visivo: una situazione unica e singolare disseminata sotto la volta protettrice della più classica tra le serre. L’elemento domestico si riveste di brutalità in Underfoot, prima mostra personale a Milano di Rebecca Ackroyd (Cheltenham, UK, 1987). L’esposizione, curata da Cloé Perrone presso la Fondazione Arnaldo Pomodoro (04 dicembre 2019 – 31 gennaio 2020) conserva l’impianto originale della Project Room e innesca, per contro, la duplice attrattiva per un immaginario urbano e per il suo trascendimento. Tra il sogno e il ricordo, le sculture in resina, gesso e cera paraffinica si presentano leggere come un soffio e fragili come i brandelli ancora irrisolti di una memoria che, riorganizzandosi, prende forma.
“Da piccola ti chiedevo ripetutamente di raccontarmi la “storia dell’anello”, potresti raccontarmela adesso?” chiede la figlia alla madre nel testo che accompagna la mostra; un insieme di dialoghi e parti di conversazioni dalle quali sfociano avvenimenti d’infanzia e lontani riferimenti, come il movimento flower power degli anni Settanta. Sono «storie di famiglia che risalivano a prima che io nascessi», le quali emergono mediante la dinamica sempre incompiuta di una riscoperta di sé ancora in essere.
Assecondando le linee guida di una prospettiva poliedrica che oscilla tra la scrittura, il disegno e l’installazione, l’artista britannica accede all’opera d’arte “reinventando” gli indizi di eventi passati, ora ricreati seguendo le sagome figurate di un ambiente comune. Oggetti casalinghi e porzioni di un corpo femminile, principalmente braccia e gambe raccolte in un’aura d’abbandono, tessono la trama e determinano la sintesi di un’immagine soggetta alla varietà del tempo: il tempo che separa e il tempo dell’osservazione; il tempo di percorrenza e, quindi, il tempo che torna sui suoi passi e si fa carico dell’opera presente.
Ciò che si guarda è la consistenza cerata di un piano cottura rosso fuoco; la rimanenza di due sedie e due mani che si stringono davanti a un monitor, cucite insieme da un intreccio scultoreo attraverso il quale sembra prendere vita la “fabbrica dei pensieri” predicata da Mefistofele nel Faust di Goethe.
L’azione creativa di Rebecca Ackroyd edifica il dato concreto accennando ai tratti salienti della sua vicenda: cosa è stato e cosa è diventato. Il dato che è “insieme ovvio e sorprendente” – affermava William Kentridge nella prima delle Sei lezioni di disegno – quando l’opera si rende esplicita e “diventa un punto di incontro, ma anche la soglia dove il mondo esterno incontra noi”, le nostre incertezze e le nostre dimenticanze: gli estremi di una visione ‘generata a salti’, opzione prima per l’ipotesi di una restaurazione, quanto mai possibile, del degrado e della rovina.
Nel tempo critico di una società globale, Rebecca Ackroyd riflette sulle nozioni di abitazione e appartenenza e ritrova il cascame di un contesto onirico. Sotto la volta della più classica tra le serre, le giacenze della realtà sono legate in maniera indissolubile alla consapevolezza del ruolo che l’artista svolge nella “costruzione dell’immagine”, terminava William Kentridge. La parte attiva che si attua nel tentativo di “costruire l’illusione” e, in particolare, di “costruire noi stessi”.
Luca Maffeo
Rebecca Ackroyd
Underfoot
a cura di Cloé Perrone
04 dicembre 2019 – 31 gennaio 2020
www.fondazionearnaldopomodoro.it
Instagram: fondazione_arnaldo_pomodoro
Caption
Rebecca Ackroyd, Underfoot – Installation View, Fondazione Arnaldo Pomodoro, 2019/2020 – Courtesy Fondazione Arnaldo Pomodoro, ph. Carlos Tettamanzi.