Questioning the body – Marianna Andrigo

L’intervista che abbiamo proposto a Romina De Novellis, Marianna Andrigo, Silvia Gribaudi, Samanta Cinquini, Elena Bellantoni, nasce con il fine di alimentare uno scambio tra artisti che lavorano con la performance. Il processo che si è voluto attivare si mostra come un tentativo di portare riflessioni sull’urgenza sanitaria Covid 19, interpellando il corpo che diviene oggetto centrale dell’intervista. Come duo esploriamo il tema della ferita affrontandolo con un approccio autobiografico e/o attivando indagini territoriali, entrando nei contesti per portare in superficie oggetti di dibattito critico sul tema della ferita collettiva. Come riflesso di un interesse rivolto a questo campo d’indagine, abbiamo rivolto un pensiero all’antropologo scozzese Victor Turner (1920-1983) e al suo contributo teorico sul concetto di performatività. Di fronte a momenti di crisi in cui le abitudini del quotidiano si interrompono o vengono minacciate, l’uomo attiva delle dinamiche di preservazione finalizzate a riportare il disordine causato dalla minaccia all’ordine originario. In alternativa l’uomo si impegna nel creare un nuovo ordine, riscrivendo codici culturali che portano a una trasformazione sociale. Turner insieme a colleghi, sociologi e teatrologi, all’interno di un ampio discorso teorico, parla in termini di performance culturali, riti di passaggio, liminalità. Ricordando alcuni fondamenti sul tema della percezione, sottolineiamo quanto scritto da Rudolf Arnheim: “La percezione compie ad un livello sensoriale, ciò che, nel campo del ragionamento, si indica come comprensione. L’atto di vedere d’ogni uomo, inoltre, anticipa in forma modesta, quella tanto ammirata capacità dell’artista di creare degli schemi che siano in grado di dare un’interpretazione all’esperienza attraverso forme organizzate”. Con questa intervista, che consideriamo progetto di ricerca e arricchimento per la nostra pratica, ci poniamo l’obbiettivo di raccogliere interpretazioni e suggestioni di artisti italiani impegnati nella performance, di cui stimiamo e seguiamo il lavoro.


Quali sono le tue impressioni personali sul rapporto tra corpo e ambiente domestico in queste settimane di quarantena imposta? Pensi ci siano delle differenze nel tuo vivere gli spazi della casa, all’interno di questa dimensione di temporanea privazione di libertà di movimento?

La casa – qui dove mi trovo ora – è interno espanso, il corpo nell’armonia di spazi noti in cui oggetti e colori parlano di noi, luogo vissuto con il mio compagno e sempre tenuto aperto alla condivisione di amici e famiglia. È odore, ritualità, calore, non da un mese ma da anni.
Interno ed esterno hanno un confine sottilissimo: sono a casa anche per strada e in mezzo alla gente, a casa di amici o nel silenzio della notte. Torniamo a casa con il desiderio di ripartire. E da lontano desideriamo casa dove tornare.
Ma in una casa allenata dentro al corpo e dentro alla mente, dentro alla forza delle relazioni più importanti, dentro alla cura del sé, dentro ai gesti d’amore, alle musiche possedute dal cervello, all’intrigo di pensieri poetici e filosofici,
si sfuoca la concretezza della casa e delle sue pareti.
Pur rimanendo valore prezioso, comodità, intimità, privilegio.
Il corpo ancora gode dello spazio creato dalla mente, dalle sue potenze immaginifiche, dalle infinite possibilità di essere ascoltato curato allenato ogni giorno, anche in una camera. Mi relaziono da tempo con il senso della disciplina e dell’autodidatta. Quattro settimane a casa non sono nulla.
In questo periodo cambia il respiro tra interno ed esterno, non più il piccolo e il grande, ma il piccolo e il microscopico, interno piccolo ed esterno sempre più minuscolo.
Ma non è sostanziale neppure la dimensione fisica dell’azione.
Cambia l’esterno divenendo il grande silenzio che entra dalle finestre,
un silenzio preoccupante, anomalo, costretto.
Siamo da poche settimane in una condizione che non sono ancora capace di capire.
La mia casa, il mondo, di persone e strade, di lavoro e vita.
La nostra casa ora ha crepe che osserviamo, che addolorano.
E si fa spazio al silenzio anche dentro al corpo e alla mente,
per cercare piccoli spazi di quiete, come preghiere, intanto così ora, senza spirito di attesa ma di presenza e prontezza. Un silenzio grande – esterno che soffoca, un silenzio da far grande – interno che respira.

La quarantena ha stimolato operatori, curatori, artisti, che si sono impegnati nell’attivare progetti di ricerca nei diversi ambiti disciplinari. Nonostante le critiche che queste operazioni hanno sollevato, crediamo che l’agire in questa direzione sia un’istintiva risposta di pensiero all’urgenza Covid 19. Questo fenomeno ti ha influenzato alimentando intuizioni progettuali e/o riflessioni sulla tua pratica come performer?

Molte le idee così come il bisogno di non inseguire l’attimo.
Accogliere con più consapevolezza il presente, ci serve tempo.
Uscirò con delle proposte sul web a breve, nella confusione che provo tra
necessità di dare continuità al lavoro – etica del lavoro (gratuità e responsabilità dell’osservatore)
promozione – estetica del web – accumulazione e sovraesposizione.
Le mie riflessioni sulla pratica del performer restano fortemente tese all’azione dal vivo di fronte allo sguardo esterno, in un lavoro sullo scavalcamento del sé che nel web rischia altissimamente l’autoreferenzialità che assottiglia il potere simbolico dell’azione performativa.
Il resto si lega al prima con coerenza nel tenere aperto lo studio, il pensiero, il confronto.



fu Biennale di Salonicco 2019


Sei stata coinvolta in questo ciclo di interviste perché sei un artista che lavora con il corpo attraverso il linguaggio della performance. Il corpo è la nostra interfaccia sul mondo, lo strumento attraverso cui percepiamo il circostante, per poi interpretarlo e comprenderlo. Quali interpretazioni scaturiscono dalle percezioni assorbite durante questo evento straordinario di urgenza sanitaria?

La mia percezione – non del mio corpo fisico – oggi è nella preoccupazione
verso chi è dentro al dolore, verso le conseguenze della perdita degli equilibri fragilissimi
e paura
paura di dover conoscere quella terribile morte di un caro senza congedo
di un tempo lungo e impotente
del crollo di libertà e autonomia
e noi? Adesso dentro per la prima volta. Non so interpretare il seme di questo nuovo mondo, se nuovo sarà.

La performance è un campo di indagine capace di aprire delle importanti riflessioni sul Tempo. Il Tempo gioca un ruolo fondamentale nell’azione performativa; alla base della performance c’è una condivisione del presente: l’atto estetico e quello della sua percezione si attuano nel loro stesso attuarsi, all’interno di un tempo e uno spazio definiti. Pensi che l’isolamento che tutti noi stiamo vivendo in questi giorni possa provocare delle trasformazioni sulla percezione del tempo, magari rafforzando nelle persone la consapevolezza rispetto all’importanza del tempo presente?

Penso che possiamo intrattenerci discutendo come abbiamo usato il nostro tempo,
parlando a noi stessi, a chi vive con noi e a chi sentiamo al telefono.
Ma non credo che questo sia sufficiente a mutare le nostre nature.
Temo comunque che questo presente, condizionato dall’esterno, non abbia la forza di informare la nostra coscienza quanto il presente della scelta, della volontà, del gusto, dell’esperienza.
L’isolamento non voluto minaccia il desiderio, chiama noia e pigrizia, anche rabbia.
Il mio augurio è che non si trovino passatempi ma che si lavori per dare valore alle giornate…lo auguro anche a me, a me, amante del fare, della velocità, dello stare con gli altri. A me che non sono mai stata sola un giorno, e questo della mia vita mi piaceva, mi piace e, come unica certezza, sono certa che mi piacerà.

Si potrebbe pensare alla pandemia di Covid 19 e alle conseguenze comportamentali che innesca, come a una grande performance collettiva?

La pandemia non è una performance
Le conseguenze comportamentali non sono una performance
La realtà della performance art non è La realtà, è la volontà dell’agire in un contesto preciso.
Il performer agisce osservando la propria emozione, lavora il sé nella molteplicità degli strati, fisici e non.
Qui siamo colti da emozioni nuove, individuali e collettive.
Rispettiamo regole, anche dubitandone.
Nell’atto performativo ci poniamo in concrete condizioni, siano corporee, mentali, relazionali per sciogliervi dentro il nostro lavoro.
Il sapore di questa condizione, ancora troppo generatrice di morte e di malattia,
con le conseguenze che NON conosciamo,
è Vita e Tempo.
Perché da una performance se ne esce vivi e forse con due soldi in tasca.


Marianna Andrigo (1982) performer, coreografa, didatta. È a Venezia dal 2009, anno in cui si lega artisticamente all’artista e sperimentatore sonoro Aldo Aliprandi con il quale realizza tutti i suoi lavori a seguire. Ambito di interesse è il lavoro sul corpo che, attraverso la cinetica, indaghi la durata come condizione di resistenza e trasformazione. La sua poetica si avvale di più linguaggi: sound-design, filosofia, teatro, suono e movimento concorrono a definire un’estetica del dettaglio e del silenzio. La relazione site-specific con lo spazio urbano e il codice della danza verticale – con la compagnia da lei fondata nel 2010 Vertical Waves Project – le permettono di indagare il corpo in quanto segno e immagine per grandi eventi e piazze. Nel 2012 fondano C32-PerformingArtWorkSpace, spazio a sostegno della produzione delle arti dal vivo a Forte Marghera, Venezia, oggi rappresentato da un’azione di gruppo formalmente organizzata dall’associazione Live Arts Cultures. Nel 2018 produce con DanceMe, progetto di Perypezye Urbane con il sostegno di MiBac, la piéce Mai mask attualmente in tournée. Si occupa di didattica sia per giovanissimi che per adulti, cercando una traccia che lavori la performatività come cura del movimento e del pensiero libero. Collaborano con Vest&Page (DE-IT), duo artistico, nel progetto Venice International Performance Art Week.

Progetto a cura di Alberto Ceresoli e Carmela Cosco


www.mariannaandrigo.it

Instagram: marianna.andrigo


Caption

Marianna Andrigo – Biennale di Salonicco 2019 – Courtesy l’artista