Indipendenti ?

Project space nasce come rubrica all’interno di Forme Uniche con la volontà di creare uno spazio raccolto e speciale dove riunire e discutere di tutte quelle realtà che si dedicano alla sperimentazione artistica operando in maniera priva di scopi lucrativi, dagli artists run spaces agli spazi non profit, comunemente definiti in Italia spazi indipendenti, e qui definiti Project space per riprendere la terminologia utilizzata a New York tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento con cui ci sentiamo più affini.

Come curatrice della rubrica sento la necessità di inaugurare questa rassegna con una introduzione storico-critica all’argomento condotta da Davide Da Pieve.

Irene Angenica

 

Volgere uno sguardo sulle più recenti sperimentazioni artistiche, cercare di osservare da vicino la produzione di giovani artisti e le proposte dei giovani curatori, significa doversi confrontare con la vasta offerta dei sempre più numerosi “spazi indipendenti”. In Italia, nel corso degli ultimi anni, si sono moltiplicati esponenzialmente numerosi luoghi espositivi che vengono definiti o si autodefiniscono tali, nonostante si faccia fatica a individuare dei termini comuni che aiutino la comprensione del fenomeno.
I cosiddetti spazi indipendenti racchiudono modalità d’azione eterogenee che rendono questa definizione quasi di comodo. È forse il termine stesso “indipendente” ad assumere oggi un significato rinnovato, ben diverso rispetto alle modalità d’impiego che lo connotavano in passato. Certamente mantiene tutt’ora un forte carattere politico, ma che risulta in qualche modo svuotato della sua declinazione puramente ideologica.
Se individuiamo rapidamente le radici di questo termine troviamo i primi esempi di attività dichiaratamente indipendenti già nella metà dell’Ottocento, quando, in campo editoriale sorge la necessità di cominciare a diffondere fanzine e riviste autonome. In campo più strettamente artistico è forse Gustave Courbet il primo a ribellarsi ai criteri accademici finanziando con le proprie risorse i suoi dipinti e la costruzione del Pavillon du realisme nel 1855, situato di fronte alla sede dell’Esposizione Universale di Parigi. Se volessimo scavare ancora più a fondo sul processo di autonomizzazione dell’artista potremmo risalire addirittura a una lettera di Pietro Bembo per Isabella d’Este, datata 1505, nella quale viene riportata la volontà di Giovanni Bellini di non sottostare alle indicazioni del committente, infatti egli “ha piacere che molto signati termini non si diano al suo stile”.
Onde evitare di creare ancora più scompiglio nella lettura del fenomeno “spazi indipendenti” è meglio concentrarsi su precedenti più facilmente assimilabili, in cui si verifica una volontà di autonomia perseguita non da singoli ma da gruppi di artisti che si aggregano e si ritrovano in un preciso luogo, per esempio: l’Hogarth Club, la Société nationale des beaux-arts, il Cabaret Voltaire, la Kunsthalle di Berna, la Federazione degli artisti indipendenti di Antonio Bucci, sino alle più recenti esperienze sorte intorno al 1965 nel quartiere di Soho a New York. Inoltre, già nella seconda metà dell’Ottocento, gli artisti cominciano a organizzare esposizioni al di fuori di luoghi classici dell’arte, per esempio in abitazioni, negli studi – noto il caso della prima mostra impressionista, allestita nello studio del fotografo Nadar –, sino a che tali modalità non dilagano nella seconda metà del Novecento con l’avvento della figura del curatore.
Queste esperienze sono assimilabili a quelle attuali per quel carattere di produzioni, per così dire, dal basso, anche se negli esempi passati non è raro ritrovare artisti già noti che compiono azioni artistiche sovversive per distaccarsi dal sistema ufficiale e dal mercato, con la volontà di aprire nuove strade sperimentali, oppure, più semplicemente, per ottenere maggiore libertà d’azione. Scrive chiaramente Lucy Lippard nel libro Alternative Art New York, 1965 – 1985: “metodi collettivi [sono] impiegati dagli artisti per contrastare e controbilanciare le pratiche elitarie ed esclusive create dai musei di arte contemporanea e per tutelare il diritto al controllo del proprio lavoro e della sua distribuzione”.
Gli antenati di spazi indipendenti, artist run space, project space, spazi non profit, sono fenomeni che oggi rileggiamo come elenchi a cascata, ma che si verificano in contesti sociali molto diversi tra loro. Tra Courbet, l’Hogarth Club e la situazione attuale si sono certamente susseguiti numerosi fatti di diversa natura, ma, ciò che raggruppiamo oggi in Italia sotto l’etichetta spazi indipendenti, sono certamente organizzazioni che spingono dal basso, e che, spesso attraverso un atteggiamento site specific, aggiornano la pratica espositiva comportandosi come veri e propri dispositivi in cui funzioni e posizioni cambiano in divenire. Gli elementi condivisi tra tutti questi luoghi consistono indubbiamente nell’autonomia della produzione e nella creazione di format espositivi, con la voglia di creare, esprimersi liberamente e, al tempo stesso, di inventarsi un futuro attraverso organizzazioni autonome. Questi display artistici sono luoghi di transizione animati per lo più da giovani, in cui le inquietudini della nostra epoca sono affrontate con sudore e volontariato, per cercare di non vedere il futuro come qualcosa che sembra allontanarsi sempre di più.
Gli spazi indipendenti sono diventati praticamente il tormentone dell’arte contemporanea: nascono in modo esponenziale e si sente sempre più il bisogno di mapparli, selezionarli e raggrupparli. Ma perché? Non basta ormai giustificarsi con la volontà di non voler disperderne un possibile potenziale perché puntualmente offuscato da un’offerta sempre più ampia, incontrollabile e confusa.
Forse, al giorno d’oggi, non riusciamo a comprendere chiaramente quale sia il minimo comun denominatore proprio perché è nella natura stessa del dispositivo un comportamento inafferrabile; una modalità animata da suggestioni di natura varia, impossibili da circoscrivere entro il termine indipendente. Inoltre, parlare di indipendenza al giorno d’oggi è diventato quasi un paradosso – forse per certi aspetti lo era anche in passato –, ma il caos è indubbiamente alimentato, dobbiamo dirlo, dallo spettro del capitalismo. E questo, artisti e curatori, lo sanno molto bene.
L’inadeguatezza del termine indipendente è messo inoltre in evidenza da un altro paradosso: ovvero dalla volontà di voler entrare all’interno di quel sistema da cui proprio coloro che vogliono aprire nuove strade dovrebbero allontanarsi; un atteggiamento rischioso e spesso controproducente, da un lato generatore di sintomi depressivi e, dall’altro lato, di esperienze confuse, di cui risulta complessa una lettura esaustiva e lineare.
Molto probabilmente sarebbe meglio osservare e analizzare il fenomeno ripartendo da una analisi approfondita di ciascuna di queste realtà, riflettere attentamente su ogni singola attività, coscienti del fatto che in ogni epoca e in ogni contesto, gli artisti sono stati capaci di avanzare nuove pratiche al di là dei raggruppamenti che gli sono stati affibbiati.

Davide Da Pieve