La ridefinizione dello spazio dell’arte come campo aperto di esperienze e relazioni attive è una problematica cruciale della postmodernità. Questa ridefinizione consegue a una particolare ed evidente condizione della cultura contemporanea, l’affermarsi di un’esteticità inglobante che stimola i nostri sensi su più livelli simultaneamente e li investe di nutrienti energie, attribuendo al corpo una nuova centralità. L’arte risponde così attraverso pratiche che non sono più strettamente visive ma sinestetiche, portando sempre più “lo spettatore nel centro del quadro”, come volevano i Futuristi. Non si tratta soltanto di riconoscere nel corpo il medium primo e imprescindibile del nostro rapporto con il mondo, ma di comprendere come il radicamento del sé nel corpo e nei suoi effetti sia l’unica ontologia possibile, per rifarci alle riflessioni ancora attuali di Sartre e di Merleau-Ponty. L’ambiente concepito dal duo Saggion-Paganello per lo spazio di Porto dell’Arte si richiama a queste problematiche non tanto per confermarne la sicura validità, quanto per impostare un suggestivo percorso di riscoperta del sé nel rapporto con l’altro in una sintonica osmosi tra reale e virtuale.

Il culmine di questo breve itinerario è proprio il concetto di relazione, da intendersi sia come reciprocità attiva sia come fondamento di una più generale condizione dell’esistere. Saggion e Paganello invitano infatti i visitatori a un momento di sospensione e di confronto con se stessi che si risolve nella presa di coscienza dell’imprescindibilità di un rapporto con l’altro, nella morsa di quell’intersoggettività che alimenta le dinamiche della vita. Il rischio principale, nell’affrontare artisticamente questa problematica, era quello di ricadere nel grado zero della tautologia o della verifica poverista, ma la suggestiva articolazione di percorso proposta dal duo ha saputo eluderlo, preferendo una più suggestiva benché essenziale proiezione immaginifica. Le quinte di Saggion e Paganello si addizionano infatti allo spazio dell’appartamento e lo riarticolano, riconfigurandolo come un’eterotopia, uno “spazio altro” dalla natura ibrida e complessa dove realtà e virtualità collassano. La sensazione è proprio quella di accedere a un altrove senza punti di orientamento che obbliga il soggetto percipiente a rivalutare di continuo la propria posizione, consegnata ora al dominio dell’ipotesi. Acceduti al corridoio di Porto, i visitatori sono invitati a entrare a coppie in una buia anticamera, una cabina di deprivazione sensoriale, che azzera ogni coordinata spaziale: un atto di preparazione necessario, un passaggio preventivo obbligato in vista dell’accesso a uno spazio di pura luce. Riavendosi da un accecamento momentaneo, lo sguardo cade sui movimenti di un corpo, scoprendo presto essere il riflesso del corpo che lo esercita e inducendo perciò il fruitore a un confronto diretto con se stesso, con la propria immagine allo specchio, metafora fisica di un io sempre più mobile e sfuggente.

Proprio ai margini di questa immagine si trovano due strette vie di uscita, a rappresentare l’esigenza impellente di una fuga da sé. Queste vie costringono il fruitore a schiacciarsi contro il muro, quasi con atteggiamento furtivo, e lo conducono al culmine simbolico del percorso: il calco in gesso di due giovani mani avvinte, sospeso al centro della cabina come in levitazione e strappato al buio della scena da un faretto sagomatore. È un’immagine volutamente incompleta, la sineddoche di una scelta obbligata, inevitabile, trovata nella morsa di due mani: la scelta di cercare un io insieme per contemplarlo, affrontarlo, aggirarlo. E perderlo insieme.
Pasquale Fameli
SAGGION-PAGANELLO
VOLEVANO PERDERLO INSIEME
a cura di Irene Angenica e Matilde Cassarini
testo critico di Pasquale Fameli
15 giungo – 17 giugno 2018
Immagine di copertina: Saggion-Paganello, Volevano perderlo insieme – Installation view, Porto dell’Arte, Bologna, 2018 – Courtesy Porto dell’Arte, ph Matilde Cassarini.