Interagire nell’evoluzione di un mondo ibridato dal digitale assume oggi una valenza primariamente etica nel tentativo di orientarsi nelle contraddizioni di un universo azzerato da limiti e confinamenti, ricercando attivamente indirizzi alternativi da perseguire. Immersi 24h su 24 nei riflessi luminescenti di smartphone, tablet e PC all’interno di una connessione inestinguibile, non si può fare a meno di essere trasformati dal contatto con l’artificio digitale. Incidenti sotto ogni prospettiva nella realtà di oggi, gli universi artificiali plasmano scenari, attitudini, comportamenti e pensieri in una logica di ibridazione del reale capace di trasformare profondamente l’esistente. A dare lettura della complessità interstiziale tra i piani dell’arte e dell’intelligenza artificiale è la curatrice Daniela Cotimbo (1987), ideatrice di Re:humanism Art Prize, che attraverso una lucida analisi riflette la contraddittorietà del perimetro della visione contemporanea.
In una realtà costruita da sguardi molteplici quali sono le derive della costruzione narrativa dell’arte? Nella frammentazione della visione della società contemporanea quali funzioni e criticità si trova a dover affrontare l’attuale figura del “curatore”?
Il punto chiave è proprio quello che hai giustamente identificato. Per secoli abbiamo tentato di usare una lente universale per costruire la nostra consapevolezza della realtà. Questa “lente” si è di volta in volta adattata ai tempi, ma fondamentalmente possiamo identificare due filoni come dominanti: il pensiero magico, irrazionale e religioso da una parte, l’approccio scientifico e razionale dall’altro. Oggi siamo qui a fronteggiare crisi che necessitano di entrambi questi approcci che al loro interno si scompongono in una serie infinita di linguaggi e saperi che si rinnovano nel tempo e acquistano sempre nuove caratteristiche. In particolare, oggi usiamo la tecnologia per esplorare e risolvere tanti dei nostri problemi quotidiani, ma il linguaggio tecnologico si aggiorna con una velocità tale che è necessaria una costante messa in discussione critica dei mezzi di esplorazione prima ancora che della realtà. Nell’ambito scientifico assistiamo a una nuova sfida che è rappresentata dalla fisica quantistica e dalle tecnologie a essa correlate. Essa pare dimostrare che persino la scienza non può più basarsi su canoni di precisioni assoluti e che la soggettività, il linguaggio e la narrazione concorrono alla costruzione del reale, nel frattempo aumentano le prestazioni computazionali e di conseguenza le possibilità. La seconda risposta è strettamente connessa a tutto questo, se infatti il reale si frantuma in una miriade di narrazioni, l’arte non può che tener conto di questa complessità nell’offrire nuovi possibili punti di vista. Così un curatore, come un artista è oggi invitato a conoscere ed esplorare ambiti anche molto distanti tra loro. Del resto questo forse ha sempre fatto parte dell’approccio artistico, quella capacità di guardare alle cose apparentemente ordinarie con occhi nuovi solo che oggi questo sguardo è sempre più microscopico e può guardare a profondità finora inesplorate dall’essere umano proprio grazie alla tecnologie; questo ci consente ad esempio di conoscere altre possibili modalità di vita adottate da altre specie viventi, dall’inorganico e dall’artificiale. A noi umani si richiede un grande sforzo di immedesimazione. Come curatrice ho iniziato a interessarmi a questi mondi perché penso che solo partendo da una conoscenza il più possibile grandangolare si possa poi generare senso, materia critica di cui oggi abbiamo particolarmente bisogno.
Nell’orizzonte digitale delle nuove tecnologie in campo artistico quali sono le principali sfide da superare, e in particolare le mete da raggiungere nel settore curatoriale a livello internazionale e locale?
Lo sviluppo tecnologico è spesso e purtroppo mosso da logiche di profitto più che di progresso. La crisi ecologica e quella pandemica sono stati due grandi motori per invertire questa rotta. La sfida di chi vuole indagare questi mondi grazie all’arte è quella di riportarli a una dimensione di sostenibilità a tutto campo. Sono ormai circa quattro anni che mi occupo di intelligenza artificiale e arte, oggi gran parte delle complessità legate a questa tecnologia sono emerse e tuttavia essa progredisce, diventa sempre più sofisticata così che la sfida in campo per artisti (e umanisti in genere) si rinnova. Ma le tecnologie come l’IA rappresentano per gli artisti anche potenti mezzi per approfondire lo sguardo di cui parlavo prima e l’obiettivo è scoprirne e sfruttarne il potenziale. Dopo l’annuncio di Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook (oggi Meta), di focalizzare gli obiettivi dell’azienda sullo sviluppo del metaverso, abbiamo una nuova sfida all’orizzonte, anticipare le mosse di questi colossi e comprendere lo spazio digitale e le dinamiche che da esso scaturiranno prima di doverne subire gli effetti. Si tratta di un esercizio speculativo non troppo complesso se pensiamo che tante di queste cose le stiamo già vivendo e che gli artisti già da tempo si misurano con la virtualità e il digitale. Inutile dirti che a livello nazionale ci muoviamo lentamente su tanti di questi fronti, ancora sono costretta come tanti altri colleghi a cimentarmi in una “difesa” delle esplorazioni artistiche tecnologiche. A livello internazionale i programmi, le residenze, i premi per artisti che si vogliono occupare di questi aspetti sono molto più diffusi ma anche qui, forse, è necessario uscire dalla ghettizzazione e tener presente che l’arte contemporanea, così come le altre discipline, non possono più sottovalutare determinati aspetti così pervasivi nel nostro quotidiano.
Nella dimensione iperconnessa dell’oggi l’attenzione si focalizza sull’immagine centrale del nodo e sulla sua azione connettiva come immagine di un tempo collettivo condiviso. La tua ultima mostra Ipersitu presso Spazio In Situ dimostra chiaramente questa formula. Qual è il reale potenziale della “connessione” e come evolverà negli anni la sua funzione? In quest’ottica come reputi il processo del lavoro di squadra e delle collaborazioni?
Non sono un’esperta di sistemi complessi ma nel mio piccolo quello che volevo esplorare con Ipersitu è proprio questa ibridazione di tempo e spazio anche in relazione all’oggetto delle nostre attività professionali, ossia alla pratica artistica. Oggi più che mai quel nodo di cui tu parli viene a comporsi di una serie di componenti collettive che co-partecipano alla sua esistenza, questo ha molto a che fare anche con la dimensione del lavoro condiviso che unisce l’esperienza di tanti artisti che decidono di lavorare nello stesso spazio. Alla luce di tutto quello che ci siamo dette, è impensabile immaginare una contemporaneità che non si fondi su una dimensione collettiva. Questo ovviamente non vuol dire che tutti gli artisti devono lavorare in gruppo, ma che per dar vita a nuove narrazioni servono tante voci. Quello a cui stiamo assistendo a Roma ne è in parte un esempio, tanti artisti che oggi rivendicano il ruolo significativo dello studio d’artista come punto di incontro tra più individualità connesse. Siamo sempre connessi, è impossibile ormai uscire da questa logica, bisogna però comprenderla e saperla gestire.
Re:humanism ha significato un vero punto di svolta nel panorama artistico italiano, ridefinendo i confini dell’arte digitale nell’incontro tra intelligenza artificiale e arte. Quali sorprese ha rivelato quest’esperienza? E quale pensi sia stato il suo impatto sul mondo dell’arte nazionale e oltre confine?
Ti ringrazio per questo modo di guardare al progetto. Non so se sono io la persona giusta per rispondere a questa domanda, ma sento che Re:humanism sia andato a colmare una mancanza che tanti altri oggi insieme a noi stanno cercando di superare. Mi riferisco ad un approccio sistematico e non occasionale ai temi tecnologici e alla loro relazione con l’universo artistico e culturale, alla ricerca di nuovi modelli che mettano in connessione questi mondi. Se i nostri intenti sono arrivati ai più non posso dirlo con certezza, ma incontro molto entusiasmo negli artisti e negli altri interlocutori che finora hanno contribuito a far crescere il progetto per cui non ci fermeremo. Oltre confine il lavoro da fare è ancora tanto, per ora abbiamo imparato tanto dal panorama internazionale, vogliamo restituirgli una visione, frutto anche del nostro passato, questa è la sfida più importante per Re:humanism.
A livello interrelazionale, quali sono i criteri da dover tenere presente progettando una curatela rivolta all’istituzione museale piuttosto che allo spazio galleristico? Nel caso di uno spazio indipendente come AlbumArte come si struttura l’approccio alla curatela?
Sono due contesti molto diversi, il museo ti responsabilizza molto nei confronti di quello che stai “mostrando”, è uno spazio complesso con strutture ben definite e sicuramente meno margine d’azione. Ma la possibilità di dire la propria in una dimensione di questo tipo ha un valore inestimabile, bisogna arrivarci preparati. Lo spazio no profit, come AlbumArte, è un luogo di sperimentazione infinita, un campo aperto con cui misurarsi ed esplorare, un tipo di approccio a cui non potrei rinunciare. AlbumArte, in particolare grazie al lavoro di Cristina Dinello Cobianchi e di Valentina, Fabiola, Marta e di tutte le persone che lo abitano, di volta in volta, attraverso i progetti rappresenta un luogo vivo, pieno di energia e di condivisione. A Roma è un po’ un unicum e credo che invece sarebbe importantissimo che una città così grande e complessa ospitasse più luoghi con la stessa natura. Dico questo come curatrice, stanno nascendo tante iniziative volte a valorizzare il lavoro degli artisti ma anche noi abbiamo tanto da dire e servono luoghi come AlbumArte pronti ad ascoltarci.
Quali sono stati i personaggi fonte di ispirazione per la tua visione curatoriale?
Faccio sempre un po’ fatica a creare liste di nomi, è un mio limite, ma una cosa che certamente mi viene subito alla mente è il fatto che forse i miei riferimenti principali non sono strettamente curatoriali. Sono tanti i nomi che hanno contribuito alla mia formazione ma quello che porto avanti oggi è certamente frutto dell’incontro, seppur solo virtuale, con autori e artisti quali Donna Haraway, Paul B. Preciado, per quanto riguarda le teorie di genere, queer e il discorso interspecie; Timothy Morton per uno sguardo lucido sulla crisi ecologica; Hito Steyerl o Kate Crawdford per una critica costruttiva sulle tecnologie dominanti. Poi ci sono ossessioni più antiche come Beckett, Perec e Dostojevskij. Anche il cinema ha un grande ruolo nel mio modo di vedere le cose, penso che non sarei quel che sono se non avessi divorato film di David Lynch, Lars Von Trier o Andrej Tarkovskij. Forse è per questo che non riesco a fare liste, perché poi non la smetto più!
Qual è stato il momento epifanico che ti ha fatto capire che saresti diventata curatrice? Quali sono stati i sogni nel cassetto che sei riuscita a realizzare e quelli che vorresti ancora realizzare?
Ho deciso di fare la curatrice nel lontano 2006 quando frequentavo il primo anno presso l’Accademia di Belle Arti di Bari. Mi ci ero iscritta convinta di voler fare l’artista, ma quando ho appreso dell’esistenza di questo mestiere ho pensato che fosse quello più adatto a me, e in cui potevo esprimermi al meglio. Da lì in poi ho dovuto un po’ modificare il mio percorso, iscrivermi a una Laurea Magistrale in Storia dell’arte e trasferirmi a Roma. Tutte scelte di cui non mi sono pentita. Oggi vorrei tanto avere uno spazio mio, dare una casa a Re:humanism e alle sue attività per potermi concentrare soprattutto sui progetti e sugli artisti. Sono fiduciosa, il terreno è fertile e non penso ci vorrà troppo tempo.
Quale sfida lanceresti ai giovani professionisti del settore che vogliono confrontarsi con il mondo digitale? Quali saranno le prospettive future del campo delle curatele d’arte digitale?
Spesso mi capita di rispondere a questa domanda e non so se sono una buona consigliera, ma l’unica cosa che posso davvero dire a chi vuole intraprendere percorsi affini è di essere determinato e di non arrendersi allo status quo. Re:humanism non esisterebbe se una serie di condizioni anche lontane dal mondo dell’arte non si fossero manifestate, una fra tutte, la conoscenza di Alan Advantage. Sicuramente prima di tutto questo c’è stato tanto altro, tante esperienze di settore che mi hanno insegnato, forse anche precocemente, come funziona questo mondo, i pro, i contro. A chi sa già che vuol seguire questo percorso consiglio di non aspettare che la scuola o le istituzioni facciano il primo passo e di attivare subito un atteggiamento curioso e propositivo. A chi non ha ancora le idee chiare consiglio di non precludersi nulla perché spesso, specialmente quando parliamo di mondi che hanno a che fare con digitale e tecnologia, le cose nascono, si evolvono anche molto velocemente. Mi sono un po’ disabituata a pensare al futuro a breve termine per colpa di questa pandemia, ma da quest’anno mi aspetto che vengano accolte un po’ delle sfide a cui accennavo. Che si parli un po’ meno di NFT, che per ora ci sono serviti poco a superare le crisi, e un po’ più di un uso intelligente dei dati e della computazione così come delle potenzialità dei mondi virtuali, staremo a vedere con pazienza e propositività.
A cura di Erika Cammerata
Instagram: danielacot
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Re:Humanist 1#, 2019 – Exhibition view, AlbumArte, Roma – Courtesy Daniela Cotimbo, ph Giorgio Benni
Re:Humanist 2#, 2021 – Exhibition view, MAXXI, Roma – Courtesy Daniela Cotimbo, ph Sebastiano Luciano
Object Oriented Choreography – Performance di Francesco Luzzana, 2021, Romaeuropa Festival, Mattatoio, Roma – Courtesy Daniela Cotimbo, ph Piero Tauro
IperSitu, 2021 – Exhibition view, Spazio In Situ, Roma – Courtesy Daniela Cotimbo, ph Marco De Rosa
Re:Humanist 1#, 2019 – Exhibition view, AlbumArte, Roma – Courtesy Daniela Cotimbo, ph Giorgio Benni
Re:Humanist 2#, 2021 – Exhibition view, MAXXI, Roma – Courtesy Daniela Cotimbo, ph Sebastiano Luciano