Complessi, senso di colpa, imbarazzo e vergogna: sono sensazioni spesso collegate, che ognuno di noi ha sicuramente provato più volte nel corso della propria vita. A differenza della colpa, la vergogna presenta forse una maggiore complessità. La vergogna è quel sentimento, più o meno profondo, di costernazione e disagio, suscitato dalla propria coscienza spesso per timore del biasimo e della condanna morale o sociale da parte degli altri. È originata da azioni, comportamenti o situazioni che possono divenire oggetto di giudizio sfavorevole, disprezzo o spregio. Si tratta di un sentimento articolato, che si costruisce – secondo il collettivo di Mulieris Magazine – soprattutto dalla percezione soggettiva di una propria inadeguatezza, debolezza o inferiorità rispetto a standard e convenzioni imposti dalla società e dagli altri. Per questo mi trovo con Sara Lorusso, una delle creatrici del gruppo, per parlare della seconda uscita della loro rivista: Shame.
Tutti abbiamo provato vergogna. Voi la definite: “un sentimento inizializzato da persone esterne a me, qualcosa posto su di me da altri”. Ma cosa significa esattamente “vergogna”? Per quanto mi trovi, in generale, d’accordo con voi, è davvero sempre sbagliato provarne? Può essere la vergogna un sentimento necessario, causato dalla rappresentazione di qualcosa oggettivamente riprovevole?
Certamente. La vergogna non sempre è qualcosa di negativo e può costituire persino un impulso per fare qualcosa che non si aveva il coraggio di compiere. Bambini e bambine non nascono però con la percezione della vergogna, che si sviluppa solo in seguito a giudizi e critiche da parte degli altri. A ogni modo, per quanto la vergogna possa avere anche risvolti positivi inaspettati, nella maggior parte dei casi pensiamo debba essere condannata.
Qualche anno fa Andreas Hvid, un ragazzo danese di 23 anni, postò qualche foto di lui che faceva sesso con una ragazza su una delle piramidi di Giza. Ovviamente ci sono state polemiche su più fronti, soprattutto da parte delle autorità egiziane. Questo avvenimento mi fa riflettere molto su come la funzione dei luoghi e dell’arte sia mutata in modo radicale negli ultimi anni. Oggi intimità e riserbo sembrano significare soprattutto sconfitta, solitudine e isolamento. Tutto avviene sotto le telecamere, siano quelle dei circuiti di sicurezza o quelle dei cellulari. Nascondersi non è più divertente anche perché impossibile e antisociale; in generale sembra che la gente voglia più vedere ed essere vista, piuttosto che capire. Oggi il senso della vergogna sembra trovare la sua cura naturale nella condivisione di ogni azione attraverso i social media. Lo spettacolo può divenire una corazza per proteggersi dalla vergogna?
Per quel che riguarda la mia attività come fotografa – e anche dal mio punto di vista – ritengo sia comunque importante e utile interagire con una community online. Condividere immagini e opinioni sul body shamig; naturalizzare il corpo al di fuori dei canoni di bellezza imposti; rivelare un fisico senza la vergogna di mostrarne la sua autenticità: tutto ciò può contribuire a trasmettere un messaggio positivo. Quindi mi sento di affermare che i social media offrono molti vantaggi e infinite possibilità, anche se risulta complicato verificare come un messaggio venga recepito e decodificato, e se davvero sia efficace al di fuori del mondo online. È indubbio che entro i confini dei social si crei una sorta di “bolla”: gli algoritmi portano a interagire soprattutto con chi la pensa in modo analogo, suggerendo profili e post sulla base dei propri interessi. Fuori dalla rete non è così; per questo l’idea di comunità è molto importante per noi: essa mira a scardinare il senso della vergogna in modo allargato e noi di Mulieris Magazine desideriamo fortemente che esca dal web e agisca nel mondo reale.
La vostra non è “solo” una rivista ma anche una piattaforma digitale. È nato prima il magazine cartaceo oppure l’attività sul web?
Il progetto nasce digitale per divenire poi anche cartaceo. Si è cominciato con l’attivismo sui social ma i lavori delle artiste che condividevamo ci parevano “andare persi” restando digitali. Volevamo un oggetto fisico da toccare, sfogliare e conservare. Perciò ci siamo buttate nella rivista e, malgrado al principio non ancora molto avvezze al mondo editoriale, abbiamo trovato aiuto e sostegno. Per quel che riguarda la stampa, dopo aver vagliato diverse tipografie, siamo arrivate a collaborare con Kopa Printing House, una stamperia con sedein Lituania davvero buona e con un ottimo rapporto qualità-prezzo. Per quanto ci piacerebbe mantenere la produzione della rivista interamente in Italia, le nostre risorse finanziarie ancora non ci consentono di operare in tutto e per tutto come vorremmo; ragion per cui controllare le spese è particolarmente importante, ma non transigiamo sulla qualità del prodotto finale.
Vi siete ispirate a qualche esempio in particolare per l’estetica di Shame?
Abbiamo sfogliato svariate riviste. Per citarne qualcuna, abbiamo apprezzato molto Girl like us, un periodico indipendente internazionale che accende i riflettori sulla comunità in espansione di donne e persone trans all’interno sia dell’ambito artistico e culturale sia di quello attivista. Ci è piaciuto anche Apartamento, un magazine spagnolo dedicato al design d’interni, fondato nel 2008 e pubblicato ogni due anni. Questi sono solamente due esempi ma abbiamo consultato pure molte riviste di graphic design. In questo modo siamo arrivate – tra le altre cose – a scegliere il font che ci pareva adeguato a Shame.
Oltre a te chi lavora in pianta stabile nel collettivo?
Io e Greta Langianni siamo state le prime a concepire il progetto: entrambe avevamo frequentato l’Accademia di Belle arti di Bologna, quindi ci conoscevamo già bene e Muliers Magazine è una nostra idea. In seguito si è aggiunta Alice Arcangeli, che lavora come illustratrice oltre a essere un’amica, e infine la graphic designer Chiara Cognigni.
Su MulierisMagazinetrovano posto arte, eventi e temi creati da donne che mirano a creare un dialogo aperto sull’uguaglianza di genere. La parola latina “mulieris” significa “delle donne”, un progetto al femminile aperto a tuttə, che cerca di ridefinire il ruolo della donna nel mondo dell’arte e nella società in generale. Qual è la vostra idea di femminismo? Anche se capisco quanto sia riduttivo fare un discorso generalistico, quali principali differenze sussistono secondo voi tra le passate sostenitrici dell’emancipazione femminile e le tendenze femministe attuali? Vi sono punti di contatto tra il vostro pensiero e i movimenti per la rivendicazione di diritti da parte delle minoranze etniche e dei gruppi LGBTQ?
Penso, spesso, che se non fosse stato per le azioni intraprese in passato, ora non saremmo nemmeno qui a parlare di questi argomenti. Sicuramente oggi le cose non si affrontano come in passato e questo non riguarda soltanto la rivendicazione dei diritti. Come dicevo prima, sostengo che i social media costituiscano un importante canale di comunicazione e divulgazione; per citare un esempio, l’attivista e sociologa Silvia Semenzin – e l’associazione di cui fa parte, Virgin&Martyr – promuovono l’educazione sessuale su Instagram e sul web in generale. Proprio un mese fa, in un TED talk sull’argomento, la Semenzin ragionava sull’attivismo online, interrogandosi sulla sua effettiva efficacia. Parlando a titolo personale, credo che sia certamente più semplice agire sul web piuttosto che impegnarsi fisicamente. Non so fino a che punto si possa realmente cambiare il mondo muovendosi solo virtualmente, per quanto ogni gesto rimanga comunque utile. Credo davvero che il femminismo di oggi dovrebbe tornare per certi versi a quello di ieri per funzionare appieno.
Mi piacerebbe approfondire come vi collocate rispetto alle recenti riflessioni sull’identità di genere. “Essere donna” è per voi qualcosa inestricabilmente legato al corpo o è anche un atteggiamento, un orientamento mentale?
È una domanda non facile. “Essere donna” è certamente legato al corpo ma non solo, in quanto il nostro magazinevuole sì parlare di donne ma ancor più di persone che hanno subito soprusi e discriminazioni e lottano per la parità. Per noi, quindi, non si tratta tanto di sentirsi donna in senso fisico o mentale: non per forza pensiamo in modo differente dall’uomo. Più che questo, la nostra rivista vuole toccare tematiche sociali, rivelando discriminazioni e tabù a cui le donne – e alcuni argomenti legati alla sfera femminile – sono ancora soggette. Tanto per citarne uno, il ciclo mestruale è qualcosa di cui ancora non si parla molto e la visione che se ne ha è spesso davvero distorta.
Sfatando subito gli stereotipi, la vostra prima uscita parlava del colore rosa. Tutt’oggi continuano a essere associati determinati colori, giocattoli e sport ai bimbi e altri invece alle bimbe. Ricordo bene quanto odiavo il calcio ma facevo finta che mi piacesse per non essere preso in giro dai coetanei (come regolarmente e comunque accadeva). Rammento però che anche alcune coetanee mi criticavano perché preferivo la pallavolo al calcio. Quanto riescono gli stereotipi a inculcarsi nella mente delle persone, al punto che esse stesse finiscono per caderne vittima?
Anche a noi le critiche sono arrivate sia da uomini sia da donne. Sono stati in moltə a chiederci perché non apriamo la rivista a contributi maschili e che, allo stato attuale, siamo noi stesse a operare una categorizzazione. In realtà non è così: lavoriamo anche con persone transgender e non binary. Ma è inevitabile, più il progetto si espande e più sono le critiche ed è un peccato. Io ho studiato fotografia e parlo anche per esperienza diretta. Se donna, si fatica molto persino a lavorare come assistente fotografa; spesso vengono privilegiati candidati maschi, ritenuti più forti per portare le attrezzature. Sono discriminazioni capitate a tutte noi del collettivo e a tante altre che interagiscono con la nostra community. In un articolo su Prettiest Journal of Photography viene evidenziato come su dieci studenti di fotografia otto sono donne ma il 70% dei professionisti attivi nel campo sono uomini. E una fotografa guadagna quasi sempre meno rispetto a un collega uomo.
Il vostro è unostampato indipendente. Quali vantaggi e svantaggi comporta per voi una gestione di questo tipo?
Non rendere conto del nostro lavoro a terzi è senz’altro bello e, anche se implica molta fatica, significa essere autonome per quel che riguarda forma e contenuti. Se la rivista divenisse istituzionale, produzione e distribuzione sarebbero forse più semplici ma perderemmo parte di questa libertà. Non escludo comunque che in futuro le cose possano cambiare, anche perché tutte noi lavoriamo pure al di fuori della rivista. Ci piacerebbe che le collaboratrici di Mulieris Magazine possano ricevere un compenso ma sfortunatamente adesso non siamo in grado di garantirlo. Purtroppo nel mondo dell’arte quasi sempre va così e si finisce per abituarsi a lavorare gratis o sottopagate, al punto che – persino oggi che lavoro a livello professionale – mi sento in colpa a chiedere denaro. Il lavoro artistico dovrebbe essere retribuito adeguatamente come ogni professione e può darsi che facendo parte dell’editoria mainstream si incontrino meno ostacoli in questo senso.
Qualche spoiler sulla prossima uscita?
Il numero tre di Mulieris Magazine sarà complesso in tutti i sensi. Un doppio tema: cosa spinge a creare e cosa ostacola la creazione, evidenziato dal doppio senso di lettura della rivista, che si dovrà fisicamente girare per fruire appieno dei contenuti.
A cura di Simone Macciocchi
Instagram: mulierismagazine
Caption
Mulieris Magazine, Shame, 2021 – Courtesy di Mulieris Magazine