Alla Galleria Valentina Bonomo, entro la cornice del ghetto ebraico di Roma, ha inaugurato il 30 novembre la prima mostra italiana di Mohamed Larbi Rahhali (1956) e M’Barek Bouhchichi (1975).
Arrivando al portone della galleria, incontro casualmente una pietra d’inciampo *; siamo in un luogo denso di storia, dal passato stratificato, complesso; mentre una pietra ci racconta una storia, altre sono tutte in silenzio.
In questo tempo in cui si parla continuamente di confini e accoglienza è necessario prestare attenzione ed essere più che mai ricettivi nei confronti di ciò che ci raccontano i luoghi che percorriamo, depositari di storie, memorie, identità in continua evoluzione.
Nella galleria due artisti provenienti dal Marocco dispiegano davanti ai nostri occhi storie diverse che hanno come scenario altre città – lontane – altre etnie, altre lingue.
Entrando riconosciamo subito le diverse ricerche di questi due artisti: la leggerezza dei materiali di Mohamed Larbi Rahhali – disposti nello spazio quasi a voler sottolineare la dispersione dell’uomo nel mondo – e la pesantezza di quelli usati da Bouhchichi, negli intrecci che caratterizzano la storia dell’uomo e la strada verso la conoscenza del mondo e di sé stessi.
Mohamed Larbi Rahhali – proveniente da Tétouan, figlio di una famiglia di pescatori – dispiega davanti ai nostri occhi una storia, fatta di piccole pitture dentro scatole di fiammiferi, reti da pesca e la costante presenza del blu, quindi del mare. Nella seconda sala, in un lavoro di grande formato, Rahhali ci mette di fronte alla sua personale percezione del mondo intrecciando brani di storia personale con temi sociali di grande attualità; attraverso simboli e forme stilizzate, l’artista ci regala un ritratto semplificato di come vede il mondo chi si trova in aree devastate dalle malattie, dalle guerre, dalla totale mancanza di libertà. Sopra le scatole di fiammiferi – microcosmi che nella loro semplicità narrano storie universali, condivisibili – una rete che unisce e al tempo stesso divide il tutto, come un incontro di meridiani e paralleli; questa rete da pesca, oltre ad alludere alla storia personale dell’artista, rappresenta internet, grazie al quale oggi possiamo conoscere posti lontani, informarci su ogni cosa, essere vicini; eppure questa vicinanza, questa comodità sembra oggi portare solo all’estrema diffidenza nei confronti dell’altro; siamo – per dirla con Debord – individui isolati insieme, soli davanti ai nostri schermi, illusi di essere in comunicazione tra noi.
Bouhchichi utilizza invece elementi che si impongono nello spazio con la loro pesantezza e forza: bastoni, pale, maschere, pietre, nei quali ritroviamo la presenza di vari metalli policromi, sui quali, talvolta, sono incise brevi poesie in lingue berbere. Ogni lavoro ci mette di fronte alla potenza oggettiva di alcuni utensili, che vibrano di forze antiche e sono carichi di significati e di storie, legate alla loro funzione, al lavoro della terra, al contatto che da sempre hanno con la Natura e con l’Uomo. Pietre diverse, frammentate e ricoperte di un metallo che scherma e riflette e riflettendo unisce; bastoni su cui sono incise storie per noi illeggibili, lontane, ma delle quali percepiamo la forza e l’essenza; in fin dei conti l’artista ci parla semplicemente della condizione dell’essere umano, per sua natura portato a oltrepassare limiti, confini, spingendosi al di là delle proprie origini, dello spazio conosciuto, verso l’altro, oltre che verso l’altrove.
Nella seconda sala, delle pale in rame, presentate senza manico, vengono poste una accanto all’altra, in dialogo tra loro. Ricordano, nella forma, due lingue; Bouhchichi vuole farci riflettere sul potere dell’oggetto (anche qui pesante, fortemente connotato in termini di lavoro manuale) e della parola, che si manifesta quasi spontaneamente sulla superficie riflettente, come qualcosa che appare all’improvviso, pur essendo lì da sempre, come un canto lontano che lentamente riusciamo a distinguere dal rumore di fondo. Ancora una volta le poesie in lingua berbera dell’Imdyazen – una compagnia di poeti itineranti – mettono questo lavoro in perfetto equilibrio tra pesantezza e leggerezza, pratica e poetica.
Nello spazio della galleria ci troviamo più volte a girare intorno a questi lavori, a studiarne i dettagli, cercando di riconoscere forme, decifrare lettere, comprendere segni e simboli. Siamo spettatori curiosi, esploratori di mondi, viaggiatori; M’barek Bouhchichi e Mohamed Larbi Rahhali ci consentono di muoverci oltre i confini del mondo così come noi lo immaginiamo, spostando il punto di vista per accorgerci di come un limite possa diventare un varco, una soglia.
Intrecci, reti, superfici che riflettono e ci includono in questi mondi al limite tra verità e sogno, spingendoci a considerare anche solo per un attimo l’infinità varietà del cosmo e la forza che sta dietro ogni viaggio, reale o immaginario che sia.
Alessandra Cecchini
* Pietre di inciampo (Stolpersteine) è un progetto dell’artista tedesco Gunter Demnig che consiste nella collocazione di targhe d’ottone – sulle quali sono incisi i nomi di persone deportate nei campi di sterminio nazisti – nel tessuto urbanistico di diverse città europee
Mohamed Larbi Rahhali – M’barek Bouhchichi
Variation within Repetition
Galleria Valentina Bonomo – Via del Portico d’Ottavia, 13 – Roma
30 novembre 2018 – 15 Febbraio 2019
Caption
M’Barek Bouhchichi, Ilssawen wchemnin / langues tatouées , 2018 – Installation, copper – Courtesy Galleria Valentina Bonomo, ph Steven Decroos & mu.zee
Mohamed Larbi Rahhali, Omri (série Ma Vie) #1, 2015 – installation, mixed media – Courtesy Galleria Valentina Bonomo
M’Barek Bouhchichi , Ajdig #8, #9, #10, 2018 – Assembling, forged metal and chiseling – Courtesy Galleria Valentina Bonomo