Di Michael Rotondi (Bari, 1977) si può dire tutto, tranne che non ami ciò che fa. Dalle piccole cose come una bevuta in compagnia, fino alle attività “serie” del dipingere e dell’insegnare, quando si ha a che fare con lui ci si trova di fronte una persona positiva, instancabile, e buttadentro. Coinvolgere è una delle cose che gli riescono meglio, e questo senso di condivisione, di lavoro collettivo, di partecipazione, è presente e pregnante nelle sue opere. La mostra personale I don’t care about painting, presso la galleria Bi-Box Art Space di Biella, segna il raggiungimento di un traguardo importante nell’attività dell’artista. L’evento espositivo è accompagnato da un catalogo nel quale è presente solo parte dell’enorme produzione di Rotondi, opere realizzate in un arco temporale che va dal 2006 al 2016. L’ingresso della galleria accoglie alcuni lavori su tela di cotone realizzati fra quest’anno e lo scorso, due dei quali inediti, mentre altri provengono dall’installazione Good Morning Captain (2015). La seconda sala ospita invece un’installazione di quadri del ciclo dedicato alla Storia dell’arte, due paesaggi e tre tele assemblate.

Le grandi tele di cotone che aprono la mostra evidenziano subito tre qualità riconoscibili dell’artista: la componente segnica in primis, che è istintiva e gestuale, concentrata su qualche deciso tocco che, da solo, permette di rintracciarvi forme immediatamente riconoscibili. In secondo luogo il colore, variegato ma contemporaneamente calibrato e decisivo per la trasmissione del messaggio dell’opera. Infine quell’apparente trasandatezza che investe i materiali usati o la pittura stessa: intendo le spiegazzature della tela e i rivoli di colore che la attraversano, così come l’affastellarsi di figure geometriche o piani di colore nei paesaggi. Questi elementi fanno sì che l’opera finale venga letta anche e soprattutto come “montaggio”, quello che il filosofo Georges Didi-Hubermann ha definito come mezzo in grado di decostruire il significato delle immagini e ricostruirne una loro leggibilità, portando l’osservatore a una conoscenza euristica, distaccata da concetti preposti. Rotondi usa le interferenze, il segno marcato e la manipolazione di simboli e codifiche passate con intenzione pedagogica. Il suo lavoro è un inno di amore per l’arte e la storia, da cui deriva il necessario bisogno di trasmissione agli altri.

Ai giovani, in particolar modo: le opere insegnano, come d’altronde l’arte ha sempre fatto, raccontando esperienze personali e cronaca collettiva, in una selezione di tutto ciò che più l’artista ha avuto a cuore. L’esempio più calzante è dato dalle piccole tele del ciclo della Storia dell’arte, nelle quali l’artista si appropria di immagini di grandi opere del passato per rielaborare e giocare con loro. Perché il divertimento e il gioco sono parti integranti di un processo di apprendimento, e questo l’artista lo sa bene. Forse per questo in un’opera del 2008 gli è passato per la testa di prendere in prestito la Crocifissione di San Pietro del Caravaggio, e di piazzare al posto del santo un Gundam, mentre sullo sfondo un uomo dai capelli rasati, simili a quelli dell’artista, tira la corda che pian piano issa la croce. Altra peculiarità del montaggio, secondo Didi-Hubermann, è la sua capacità di confronto della veridicità di una fonte grazie alla sua giustapposizione con le altre. Questa propensione la rivedo in un passaggio del testo critico scritto dal curatore, Marco Roberto Marelli, il quale definisce Rotondi un “accumulatore di stimoli visivi”. L’artista accumula l’arte, la musica, la letteratura, e poi incita una lettura personale, facendo del punto di vista dell’osservatore un elemento stesso del lavoro. Perché nessuno racconterà mai la stessa versione di una storia.
A Michael Rotondi “non interessa la pittura”. Invece è tutto il contrario.
Claudia Contu
MICHAEL ROTONDI
I DON’T CARE ABOUT PAINTING
a cura di Marco Roberto Marelli e Alberto Pala
24 settembre – 30 ottobre 2016
Bi-BOx Art Space – Via Italia 39 – Biella