Memestetica, il settembre eterno dell’arte: intervista a Valentina Tanni

Tra le pubblicazioni recenti riguardante linguaggi, società e arte, Memestetica, il settembre eterno dell’arte (Nero Edition, 2020) si distingue tra le più brillanti non solo perché aderente all’hic et nunc ma perché animata dalla necessità di tracciare una mappatura del contemporaneo tra arti visive e cultura digitale. Memestetica pone domande a cui non dà risposte dogmatiche stabilendo nuovi canoni, fa da orientamento nella sterminata realtà visivo-digitale, riportando numerosi case stories e contributi creando un reticolato di ulteriori connessioni e significati. Scegliere di leggere Memestetica è un po’ come darsi l’occasione di inoltrarsi dentro schermi provvisti di un certo spirito critico e cognitivo utile a conoscere la convergenza tra iperconnessione e pratiche artistiche, percependo il senso di un cambiamento in atto. Per meglio comprendere questo processo abbiamo dialogato con la sua autrice, Valentina Tanni.


Il rapporto tra arte e nuove tecnologie ti vede da sempre impegnata come critica d’arte, curatrice, docente e scrittrice nella ricerca riguardante la Net art e le culture del web. Già con il blog nato nel 2011 Random, e con la seguente pubblicazione, ti inoltravi come netizen delle arti visive e creavi un osservatorio sui suoi sviluppi. Per citarti, è “navigando contromano” che sei giunta a scrivere quella che possiamo definire una mappatura completa, e mai tentata prima, della Net art dagli anni 2000 a oggi?

Si, il libro è frutto di un percorso di ricerca decennale, e in un certo senso affonda le radici ancora più indietro nel tempo. Lo studio e la frequentazione delle culture che nascono online, soprattutto quelle legate alle arti visive, è stato fondamentale per arrivare a concepire Memestetica, che non è un testo specifico sulla net art, ma che da quegli studi e da quelle esperienze prende le mosse. Come cerco di spiegare nel libro, l’utilizzo sperimentale e non convenzionale che facevano del web gli artisti negli Anni Novanta rappresenta uno snodo fondamentale per capire tutto quello che è successo dopo.

Il ragionamento che sembra farsi strada come pilastro del contemporaneo, e che nel libro introduce il lettore a oggettivare la realtà quotidiana, va sotto la voce ‘post’. Penso al postreadymade, al postinternet , al postpunk di Reynolds, avanzi forse del postatomico. È una questione di posteriorità e di ‘post’ che, banalmente, ci indica anche la modalità di condividere contenuti.

Non sono mai stata un’amante dei termini che iniziano con ‘post’, e in generale chiunque mi conosca sa che sono sempre un po’ a disagio nell’utilizzare etichette e definizioni (ai miei studenti faccio sempre infinite – e credo noiose – premesse su questo). Tuttavia è senz’altro vero che esistono dei momenti nella storia che tutti riconosciamo come punti di svolta, e l’uso del prefisso ‘post’ serve a far capire che “dopo” un certo evento alcune cose non possono più essere viste, concepite e analizzate come si faceva prima. In Memestetica ci sono due momenti di questo tipo: uno è simbolicamente rappresentato dal concetto di ready-made e l’altro dall’avvento di internet.
Non avevo mai pensato alla coincidenza terminologica con l’atto di “postare”.

Davanti alla fluttuazione quotidiana di dati e algoritmi, che compongono in qualità di file anche le immagini, il professionismo dell’arte ha subito un colpo di coda. È interessante osservare come reagisce questo sistema. Credi che da questi fenomeni emerga soltanto la minaccia o si percepisca il bisogno di scardinare un ancien régime?

Credo che queste due pulsioni coesistano. Il sistema naturalmente mira all’auto-preservazione, quindi la reazione più visibile e immediata è di tipo difensivo; tuttavia esiste da tempo, anche all’interno dell’art-system, la consapevolezza della necessità di mettere in discussione e di rinnovare. Quali possano essere le modalità di questo rinnovamento, è molto difficile immaginarlo ora, ma è impossibile negare la sensazione che sia in atto un cambiamento epocale.

Accessibilità estesa sembra essere una delle parole chiave di questo nuovo scenario. Riferendoci all’atto di appropriazione dell’immagine, quando credi si sia passati da un esercizio ludico e amatoriale a un’attitudine più articolata e stratificata, atta a veicolare messaggi ben più densi?

Il tema dell’accesso, inteso in senso molto ampio, è sicuramente centrale. Se la pulsione all’appropriazione non è infatti una novità – possiamo riscontrarla in tantissime espressioni e tendenze culturali molto prima del web – è senz’altro vero che l’accesso sempre più ampio ai mezzi di produzione e distribuzione dei contenuti ha reso questa pratica un fenomeno davvero quotidiano e globale. Per rispondere alla tua domanda, non credo che si possa individuare una prima fase esclusivamente ludica e una seconda più “densa”; credo che diversi modi di appropriarsi e di detournare le immagini siano sempre stati compresenti. Se ti riferivi invece, più nello specifico, al linguaggio dei meme, qui possiamo individuare senz’altro un processo evolutivo. Dopo un iniziale approccio leggero e ludico, infuso di ironia semplice, si è gradualmente passati alla produzione di immagini sempre più articolate, autoreferenziali e stratificate. Questa evoluzione è oggetto di molti studi e le varie “epoche” dei meme sono state identificate in relazione al loro rapporto con il meccanismo dell’ironia (meme pre-ironici, ironici, post-ironici e meta-ironici).



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fu4-EricFleischauerUniversalParamount2010_courtesydellartista
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Il contrappasso dell’arte, uno dei capitoli del tuo libro, pone in essere l’ipotesi che il sistema dell’arte stia pagando il fio di secoli di furti a cinema, letteratura, fotografia. Un riscatto in termini di appropriazione indebita?

L’espressione “contrappasso dell’arte” si riferisce al fatto che l’arte contemporanea, che ha praticato moltissimo l’appropriazione e il detournment come strategie creative, è oggi essa stessa oggetto di pratiche appropriazioniste. E non ci sono più mura museali o rilegature di catalogo in grado di proteggere le opere dalla contaminazione.

Il concetto di originalità sembra essere prossimo a una scomparsa a fronte di “un continuo presente scaricabile, modificabile, remixabile” sintetizzato in gattini che camminano senza le zampe davanti o la Pimpa che parla di comunismo. Siamo ancora in grado di fare una filologia dell’immagine e distinguerne una manipolata?

Il concetto di originalità in arte è in crisi da oltre un secolo ormai, non è certo una novità. Quello che c’è di nuovo, nella nostra epoca, è l’ampiezza della partecipazione, la scala su cui questo gioco infinito di remix e riutilizzo si svolge. Il sistema delle immagini è da sempre un’entità organica, in un certo senso; gli artisti hanno sempre preso spunto, consciamente o no, da altre immagini, altri artisti, altre opere, altre visioni; la cultura umana è il risultato di un processo continuo di remix. Però oggi questa dinamica si è fatta più veloce, più pervasiva, più onnicomprensiva. Rendendo ogni contenuto instabile, inaffidabile, sempre potenzialmente soggetto alla manipolazione. Non solo non siamo sempre in grado di distinguere le immagini manipolate, ma anche la “post-produzione” è un concetto superato. Le immagini spesso nascono già ibride in partenza, perché a volte sono figlie dell’incontro tra lo sguardo umano e quello della macchina.

Quello a cui stiamo assistendo è la creazione di nuove pratiche estetiche connotate da una partecipazione senza precedenti. Si pesca però sempre dal passato e nel tuo libro fai riferimento a un rimaneggiamento delle avanguardie. Mi vengono in mente anche pratiche connesse alla poesia visiva e al suo appeal di sovrascrizione segnica e semantica, e anche a una pratica dell’antichità, dettata dalla penuria di materiale, per cui le pergamene e i papiri venivano erasi e scritti nuovamente, con il risultato di un testo ibridato. Quasi un terzo paesaggio, come quello che ci indica Gilles Clement.

Come dicevo poco fa, penso che la cultura sia da sempre un processo fatto di ricezione e rimaneggiamento di materiali esistenti, anche quando questo meccanismo è meno visibile. C’è anche da dire però che il riemergere di idee e pratiche che noi storici dell’arte colleghiamo alle avanguardie – fenomeno di cui parlo ampiamente nel libro – è un’eredità che il più delle volte viene assorbita in modo inconsapevole. Trovo molto interessante cercare di capire cosa c’è dietro queste somiglianze; è una delle domande che mi ha spinto a scrivere Memestetica.

Weirdismo e contaminazione, applicati al culto dell’errore e a una certa militanza artistica e politica, portando all’apice la dimensione cyborg, possono essere stati propulsori di fenomeni di liquidità come il gender, lo xenofemminsimo?

Questa è una domanda troppo difficile per rispondere così su due piedi. Sicuramente internet è stato un acceleratore per il processo di riconoscimento della molteplicità, degli infiniti modi che abbiamo di stare al mondo, aiutandoci a comprendere e concepire l’identità come qualcosa di instabile e fluido. L’accesso alla rete ha anche permesso a tante persone di trovare la propria voce all’interno di comunità basate non su criteri geografici o di classe, ma un sentimento di “sorellanza” culturale.

Nel libro citi un lungimirante J. Berger durante la prima puntata del suo televisivo Ways of Seeing, poi diventato libro. Anticipa la questione delle immagini scollegate dal loro contesto originario e anche quella di “bacheca” come mood-board iconografico a cui i giovani degli anni settanta propendevano già. È questo quello che si può definire il ”settembre eterno dell’arte”?

Il lavoro di John Berger è stato in un certo senso profetico, sotto molti aspetti. Prendendo le mosse dalle teorie di Walter Benjamin sul nuovo status dell’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità, Berger spiegava come le immagini artistiche siano oggi veicoli potenziali per qualsiasi messaggio. Scollegate dal contesto originario, spiega, le immagini vengono utilizzate “come parole”: ritagliate, accostate ad altre, accompagnate da suoni o messe in movimento. È inoltre fondamentale, nel discorso di Berger, il tentativo di assegnare un nuovo campo d’azione alle immagini d’arte, riconnettendole con il pubblico, che viene incitato ad assorbire l’esperienza estetica nella vita di tutti i giorni. In un certo senso, si, il “settembre eterno dell’arte” inizia proprio da qui, nel momento in cui l’arte non è più solo qualcosa di sacro e intoccabile da venerare, ma qualcosa che può e deve far parte della vita.

Valentina Tanni, gennaio 2021.

A cura di Lara Gigante


www.valentinatanni.com

www.greatwallofmemes.com

Instagram: valentinatanni


Caption

Memestetica, il settembre eterno dell’arte, Nero Edizioni, 2020

Eric Fleischauer, Universal Paramount, 2010 – Courtesy dell’artista

Mark McEvoy, New Lyrics for Old Songs, 2013 – Courtesy dell’artista

Christo e Supermario, immagine trovata