Manifesta 11: diario di una visita

Zurigo, la città europea simbolo dell’economia, si presenta allo straniero con una stazione grande, luminosa, e perfettamente funzionale. I treni partono da e per tantissime città negli stati vicini, i tabelloni digitali, immensi, sembrano quelli di un importante aeroporto. Questi grandi schermi sono proprio ciò a cui ho pensato per tutta la durata della mia visita a Manifesta 11. What People Do For Money, curata dall’artista multimediale tedesco Christian Jankowski.

La biennale cerca di esplorare tutte le realtà relative agli elementi di contatto tra la professione dell’artista e tutte le altre, interrogandosi anche sul rapporto tra il lavoratore e il suo mestiere. Una parte più generale, ospitata nel Löwenbräukunst, esplora il tema del break, il riposo: qui si trova ad esempio la Ricerca della comodità in una poltrona scomoda, di Bruno Munari, o la divertente serie di piscine in ceramica di Damian Popp, ognuna accostata alla celebrità che la possiede. Di solito si dice che i cani assomiglino ai propri padroni; qui l’artista cerca di dimostrare che anche l’oggetto di relax e distacco dal lavoro può assomigliare a chi ne fruisce. Sempre in questa sezione un’interessante sala ci immerge in Open Heart Warrior, l’immaginario inquietante di Jon Rafman. Il video e una serie di sculture indagano il rapporto edonistico e a volte masochista che intrecciamo con le nuove tecnologie, in particolare i videogiochi, alternativa prediletta a un lavoro da cui vogliamo staccare, ma sempre più spesso fonte di lavoro essi stessi. Al secondo piano dell’edificio, invece, ci viene schiaffata addosso la nostra umanità. La chiacchieratissima installazione di Mike Bouchet è un’impressionante mole di rifiuti organici, prodotta in un solo giorno dai sifoni di Zurigo. Oltre al ridondante ricordo di Piero Manzoni, Dieter Roth e una variante soggettiva più o meno ampia di altri artisti, di quest’opera resta il fastidioso odore che vi perseguiterà per tutto il Löwenbräukunst.

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Manifesta 11 – Megan Marlatt, The critics at large: the big headby, 2014 – ph C.C.

Una Szeemann mette in scena il dramma catartico frutto della collaborazione con due psicanalisti locali, attraverso la realizzazione dei simulacri del suo stesso subconscio, prodotti durante una seduta: dalla chioma di capelli biondi, che ricordano una Medusa costantemente sul punto di voltarsi, ma che invece non lo farà mai, a una veste che aderisce su un corpo invisibile, fino a delle ossa, la cui narrazione è affidata a una trascrizione della seduta stessa. Questo intervento fa parte, come molti altri, delle Joint Ventures tra artisti e professionisti locali che la biennale ha favorito. Non poteva mancare uno spazio dedicato a super curatori e critici, al potere che questi fantocci dell’arte detengono nelle loro grosse teste pe(n)santi: così deve pensarla Megan Marlatt ritraendo Hans-Ulrich Obrist, Roberta Smith e Jerry Saltz.

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Manifesta 11 – Una Szeemann, The Seed’s Journey, 2016 – ph C.C.

L’Helmhaus, museo con chiesa gotica annessa situato dall’altra parte del Limmat di Zurigo, ospita la seconda parte della biennale. Eternal Garden è l’opera site-specific che accoglie per prima lo spettatore, risultato dell’incontro tra l’artista russo Evgeny Antufiev ed il pastore della chiesa: il concetto di eternità, caro ai due interlocutori, è riassunto nelle farfalle, soggetto che accende l’interesse di molti autori fra cui Anton Chekhov, Conrad Gessner, Leo Tolstoj, Vladimir Nabokov, Augusto Giacometti, e che rimarca il potere catalizzatore della città, essendo tutti stati a Zurigo almeno una volta. Le sale del museo ospitano opere canoniche come Twenty years Later di Sophie Calle, che vede in esposizione il resoconto del detective che l’artista aveva chiesto alla propria madre di ingaggiare perché la seguisse per le vie di Parigi, oltre l’interessante progetto The World Is Cuckoo di Jon Kessler e l’esempio di arte relazionale The Here and Now di Leigh Ledare. Sembravano tanti igloo di Mario Merz, e invece erano televisori: l’artista ha lavorato con un gruppo di venti persone realizzando una seduta di psicoterapia, nella quale tutte le barriere dei partecipanti, le loro maschere, gli stereotipi e i tic nervosi tipici della professione di ognuno, sono presto cadute lasciando spazio alla dimensione dell’umano. Reazione parallela e contraria, che pone la macchina e il suo scopo prefissato, l’opera Chatter Box di Shelly Nadashi, interessante anche se il pensiero vola immediatamente a Anywhere Out of The World, di Philippe Parreno.

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Manifesta 11 – Mike Bouchet, The Zurich Load, 2016 – ph C.C.

L’esperienza termina al Pavillion of Reflections, la struttura in legno che galleggia sul lago di Zurigo e che proietta in loop i video realizzati durante le Joint Ventures. Impossibile vederli tutti in una volta, così come è impossibile visitare Manifesta in un giorno solo: diversi eventi sono dislocati per tutto il centro storico, il Cabaret Der Künstler propone ogni giorno una performance diversa, e persino alcune opere sono presentate nelle sedi principali esclusivamente come progetto (vedi Jon Kessler), mentre l’oggetto vero e proprio si trova in un’altra galleria o spazio. Questa dispersione non aiuta certo chi ha poco tempo per rimanere in città. Tanti video e installazioni, tanta ironia, tanto kitsch, forse un po’ troppo. La biennale di Jankowski rischia costantemente di scivolare a causa di un concept troppo retorico, una dispersione eccessiva, e un allestimento molto caratterizzante, che a volte toglie fiato alle opere stesse. L’esperimento di curatela dell’artista tedesco sembra non aver convinto tutti, anche se l’esperienza della biennale, nel complesso, risulta comunque piacevole, in particolar modo per le Joint Ventures, che spesso hanno portato a lavori emozionanti e particolarmente interessanti.

Claudia Contu

 

MANIFESTA 11

What People Do For Money

a cura di Christian Jankowski

fino al 18 Settembre 2016, Zurigo

www.m11.manifesta.org