La narrazione non lineare è una strategia narrativa che non usa strutture standard (incipit, centro della storia, risoluzione e conclusione). Al contrario, utilizza metodi di sviluppo inverso con l’utilizzo, per esempio, di medias res (nel mezzo della narrazione), di flash back o prolessi (anticipando fatti non ancora in essere), che colgono lo spettatore sorprendendolo o disorientandolo e creando una condizione di straniamento. Si tratta di uno schema analizzato dalla narratologia o semiotica della narrazione – teoria introdotta dal filosofo Cevtan Todorov (1939-2017) intorno agli anni Settanta – che consente uno studio delle storie e delle fiabe analizzandone forme e strutture, identificando varie tipologie di composizioni. Allo stesso modo, la lettura della ricerca di Marco Sgarbossa (Cittadella, 1990, vive e lavora tra Venezia e Torino), può essere analizzata con questo approccio. La sua non è una “storia lineare”. L’osservazione del suo lavoro diventa l’occasione per una riflessione intorno alla materia e ai materiali, ai concetti espressi e rappresentati, ma soprattutto intorno all’imprevisto e all’inciampo in una condizione accidentale dell’opera (di cui lo stesso autore è ignaro) e nell’opera (da parte del pubblico). Nella misurata eleganza del suo lavoro, si dispiega un’abilità che consente un’indagine sulla natura dell’uomo e delle sue contraddizioni. E lo fa sperimentando un registro narrativo sottile, attraverso una multidisciplinarietà di linguaggi. L’ultimo progetto Stupor realizzato per Platea Palazzo Galeano, curato da Giulia Menegale, è l’occasione per parlare della sua ricerca.
Vorrei iniziare dal tuo ultimo lavoro Stupor presentato in uno spazio singolare come la vetrina di Platea Palazzo Galeano, e curato da Giulia Menegale. Come si configura la macchina per le bolle di sapone all’interno del dispositivo? Durante la serata inaugurale Carlo Orsini (direttore artistico di Platea) introducendo il tuo lavoro ha fatto di riferimento ai saggi di Peter Sloterdijk (filosofo tedesco), la trilogia Sfere (Sfere I Bolle, Sfere II Globo, Sfere III Schiume, edito da Raffello Cortina Editore) in cui l’autore “interpreta l’individualità come una bolla e la società come una schiuma, cioè un’associazione di bolle”. Raccontaci il progetto.
Mi ha piacevolmente sorpreso l’interpretazione di Carlo Orsini. Penso sia una lettura del lavoro molto acuta. Quando si tratta di raccontare il mio lavoro, personalmente preferisco rimanere un passo indietro, evitando di farne la parafrasi. Potrei raccontare cosa mi ha portato fino a lì, ma alla fine il fondamento del mio lavoro consiste nel pensare per immagini. Per la mostra Stupor, quello che avevo da raccontare si trova già dentro la vetrina. A volte le parole sono insufficienti. A volte non c’è un foglietto illustrativo. C’è una macchina di bolle di sapone progettata e costruita in casa. Si attiva con un generatore di numeri casuali, quasi fosse una balbettante ricerca di attenzioni. Dentro la soluzione di sapone è disciolto un antidepressivo serotoninergico. Il progetto non è nato con un significato predeterminato in mente, ma è un’articolata e sussurrata rete di interconnessioni e di rapporti di senso tra i suoi elementi costitutivi.
Nei tuoi lavori sono spesso presenti sostanze notoriamente utilizzate per il trattamento dei disturbi dell’umore e della personalità, mescolate con le materie che utilizzi. Penso all’antidepressivo nella macchina sparabolle, ma anche al tramadolo e al delorazepam in Untitled (da-ta), Untitled (delorazepam) e Untiled (grimace). Gli psicofarmaci agiscono direttamente sui neurotrasmettitori che rinviano impulsi nervosi, producendo un’alterazione nello stato emotivo del soggetto (che si presume agisca positivamente su di esso). I tuoi interventi da un certo punto di vista si presentano anche come omissioni che potrebbero essere disvelate. E la loro consapevolezza contribuisce a cambiarne la percezione. La tua è un’azione che può essere interpretata come una manifestazione e rappresentazione di ciò che accade quotidianamente attraverso i meccanismi di manipolazione, dissimulazione, inganno della realtà soggettiva e collettiva. Vuoi parlarcene?
A volte quello che non è immediatamente esplicitato, l’elemento omesso, risulta essenziale. A volte l’elemento cruciale sta nell’ultimo posto in cui vorremmo guardare. Non parlerei di inganno, né manipolazione; si tratta più che altro del livello di risoluzione con cui percepiamo le cose e con cui ci orientiamo al mondo. Ci sarà sempre qualcosa che non abbiamo considerato, un imprevisto, l’elemento che avevamo o volevamo ignorare, pronto a farci vacillare.
A proposito di studi sull’imprevisto mi viene in mente 3 trained dogs, 2 cameras, 1 stage, no point (soft place), un video in cui tre cani abbaiano incessantemente. Anche in questo caso come sopra, il corto circuito che si crea è quello di un’alterazione del reale e di un disturbo (non solo emotivo) dell’animale e dello spettatore. Ma anche di un richiamo alla relazione ancestrale tra l’animale umano e quello non umano.
È quel disturbo che genera un problema. E i problemi sono qualcosa di meraviglioso.
L’indagine sulle emozioni prende in esame la dimensione del timore e dell’imbarazzo nell’esposizione del sé. È interessante soffermarsi su questo aspetto considerando l’epoca della sovraesposizione, in cui si afferma quella condizione della presenza-esistenza in un contenitore fluido. In Model for a pretender shelter e Model for a pretender trap realizzi dei prototipi di rifugio o di trappole, che si configurano all’interno di un confine circoscritto dato dalla struttura lignea. Contenitori e espositori allo stesso tempo di una condizione transitoria ma fondante nella formazione dell’individuo (che nel riconoscimento altrui forma la propria individualità).
Se parliamo di imbarazzo e timore, fare l’artista potrebbe sembrare paradossale. In realtà far questo lavoro dovrebbe prevedere una riflessione sul concetto di esposizione in senso lato, non solo l’esposizione del sé. Mi chiedo quali forme possa assumere l’esporre, l’esporsi e il darsi in pasto. Model for a pretend shelter e Model for a pretend trap, sono i titoli di due differenti serie di lavori, confondibili tra loro, interscambiabili. Volevo si riuscisse a notare come fosse semplice confondere uno strumento con un ostacolo. Un rifugio con una trappola. L’intento è di stabilizzare in una forma qualcosa che potesse apparire in un dato momento un ostacolo e in un altro, uno strumento e viceversa.
Riprendendo il concetto della transitorietà penso a lavori come Monumento all’intimità e Bouquet impossibile. Se nel primo l’azione si concretizza in un’immagine che cristallizza l’intangibilità di un momento, nel secondo è attraverso l’immagine di un quadro del pittore Jan Van Huysum che si genera la tua opera, trasformandosi in un elemento liquido.
I lavori che hai citato hanno un vantaggio: non sono o non sono più visibili. Nel caso di Bouquet impossibile, una traduzione in forma olfattiva di un dipinto, ci si trova davanti a qualcosa di non osservabile. Il profumo vive nell’aria, muta da pelle a pelle, cambia nel tempo, ma impone la sua presenza saturando l’aria. Bouquet impossibile si sottrae all’insistenza dello sguardo e questo è il suo più grande pregio.
Quali progetti nel tuo futuro prossimo?
Mi piacerebbe saperlo ma le sorprese e gli imprevisti sono dietro l’angolo.
A cura di Elena Solito
Instagram: platea_palazzogaleano/
Caption
Marco Sgarbossa, Stupor, Platea. Palazzo Galeano, Lodi, 2022 – Courtesy Marco Sgarbossa, Platea, ph Alberto Messina