In origine fu la “fontana” di R. Mutt, arrivarono poi cavalli vivi in un Attico-garage e piccioni imbalsamati sparsi per la Biennale di Venezia, il pubblico iniziò a storcere il naso e la domanda “che cos’è l’arte?” divenne sempre più frequente. La questione dell’arte, avvincente saggio di Nigel Warburton, partendo proprio da questo interrogativo, ci conduce in un sorprendente e approfondito viaggio attraverso le principali definizioni che, di arte, sono state date in questo nostro lunghissimo Novecento.
Il breve testo, poco più di un centinaio di densissime pagine, parte dal presupposto che la questione della produzione artistica sembra essere più adatta al campo della ricerca filosofica che a quello della pura critica d’arte.
Il primo autore, trattato dal giovanissimo filosofo inglese (Warburton nasce nel 1962), è Clive Bell. La sua teoria, espressa nel 1914 attraverso il testo intitolato Art, può essere ridotta alla formula “l’arte è forma significante”. Bell è convito che esista una caratteristica comune che possa distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è. Tale qualità, presente in tutte le opere degne di considerazione, produce un’emozione estetica ed è composta da linee, colori e forme strutturate in determinate relazioni fra loro.
Sul versante opposto troviamo il secondo pensatore preso in analisi, Robin G. Collingwood. In questo caso il testo di riferimento è The Principles of Art, pubblicato per la prima volta nel 1938. Condividendo con Bell l’idea che l’arte è una categoria atemporale, Collingwood, partendo da una distinzione fra ciò che è arte e ciò che è artigianato, definisce l’arte come l’espressione immaginativa di emozioni. Tale “espressione” è però da considerarsi in una concezione ristretta, quale percorso di scoperta di una sensazione, inizialmente generica e indefinita, che diventa chiara esprimendosi in un’opera.
Il saggio di Warburton fa poi una brusca virata chiedendosi se è possibile dare una definizione alla domanda di partenza. La palla passa ora ai pensatori che fanno propria la negazione wittgensteiniana, negazione che si concretizza nell’idea dell’impossibilità di delimitare una definizione. L’ipotesi, che la concezione di arte non possa essere definita tramite la scoperta di una caratteristica essenziale che la determina in maniera esclusiva, introduce la nozione di somiglianza di famiglia. Tale concetto presuppone che la possibilità di parlare del termine “arte” derivi solamente da uno schema di somiglianze che si sovrappongono e sommano a vicenda all’interno di un gruppo di oggetti.
Gli ultimi due campi di tentativi filosofici trattati dal saggio fanno rispettivamente riferimento a George Dickie e Jerrold Levinson. Per il primo autore parliamo di teoria istituzionale in quanto l’accento è posto non sull’aspetto di un’opera d’arte ma sul contesto che la determina tale. Un oggetto si trasforma in una realizzazione artistica non grazie a proprie caratteristiche intrinseche ma perchè esiste un determinato gruppo di persone (non un’elite, sia ben inteso) che gli attribuiscono lo status di opera d’arte. Un’alternativa all’idea di Dickie è stata recentemente suggerita da Levinson, attraverso la proposta di una definizione storico-intenzionale. Un oggetto può assurgere allo status di opera d’arte solo se è stato seriamente inteso come tale e valutato nel modo in cui, precedenti opere d’arte, sono state prese in considerazione.
Il saggio di Warburton è davvero uno di quei libri da rendere obbligatori nelle scuole, riesce ad affascinarci e a presentare tutte le teorie, sopra descritte, facendocele sentire nostre, per poi distruggerle letteralmente enunciando le principali obiezioni a esse. Un testo scritto in maniera semplice, con grande attenzione alla sua funzione divulgativa. Insomma un’utilissima arma per tutti quelli che sono stufi di sentirsi dire: << lo potevo fare anch’io >>.
Marco Roberto Marelli
WARBURTON, Nigel
La questione dell’arte
Piccola Biblioteca Einaudi – 2004.