“Hey there, Tiger!” di Irene Fenara da UNA GALLERIA

Per la cultura Naga1 l’uomo e la tigre sono fratelli separati dopo la morte della madre. La leggenda narra che la tigre avesse forza e agilità, l’uomo l’intelligenza e il terzo fratello chiamato spirito fosse dotato di poteri divini. Il terzo si allontana e lascia i due fratelli a contendersi il mondo con una gara di corsa, vinta con l’inganno dall’uomo che sarà destinato a vivere lontano da loro, mentre la tigre si ritirerà nella foresta. Nella cultura orientale sono piuttosto diffuse narrazioni come questa poiché la tigre è per molte popolazioni protettrice degli antenati (Vietnam e India) o dei villaggi (la tigre mannara indonesiana); guardiana dell’albero della vita (Giava); è dio tigre indiano Vaghadeva; simbolo della fertilità per la tribù di Warli o spirito benigno per i tibetani. A Occidente la presenza del felino è soprattutto il prodotto di suggestioni di derivazione coloniale che trovano continuità e attualità con la moda o il design, amplificando il gusto dell’esotismo, o sfruttandone il simbolismo (di forza e coraggio) applicato ai beni di produzione nella cultura di massa.

Marta Barbieri e Paola Bonino di UNA Galleria proseguono la loro ricerca verso le sperimentazioni più contemporanee e sensibili trattando anche temi contingenti alla relazione uomo e natura. A Piacenza ricreano la foresta immaginifica di Irene Fenara (1990, Bologna) attraverso “Hey there, Tiger!”, progetto espositivo visitabile fino al 15 maggio. “Che peccato non essere una tigre” è il testo di Irene Sofia Comi che accompagna la mostra; offre alcuni spunti di riflessione intorno all’immagine della tigre e all’utilizzo che se ne è fatto nel tempo, alla sua prolificazione più nella cultura visiva che non nel suo habitat, e alla necessità di ripensare il rapporto uomo-animale.

L’artista presenta un lavoro inedito iniziato in occasione del premio ING Unseen Talent Award di Amsterdam (2019) – Three Thousand Tigers, arazzi in lana fatti a mano – insieme ad alcune fotografieprovenienti da videocamere installate nelle foreste. Il primo è l’esito finale di un progetto elaborato con un algoritmo generativo, al quale ha affidato le immagini delle tigri esistenti sul pianeta. Circa tremila esemplari (presenti nel continente asiatico per lo più), unici superstiti come conseguenza di un processo di sviluppo umano non più sostenibile. Complici di questa situazione fenomeni passati (colonialismo) e contemporanei (capitalismo) che sono stati e sono tutt’oggi una minaccia alla biodiversità, effetto della cecità dell’antropocentrismo che mette in pericolo la sussistenza di tutte le specie (anche la nostra).

I predatori alfa da minaccia per l’uomo, sono ora loro minacciati da quegli stessi uomini trasformati in animali divoranti2,tanto che quei tremila esemplari sono insufficienti al sistema di calcolo utilizzato dall’artista per formarne altri uguali. Proprio per sopperire a quella mancanza effettiva di dati è il sistema stesso che ricrea un nuovo bestiario fantastico, in cui i felini si moltiplicano generando macchie di colore o anatomie informi. Attraverso l’analogia tra tecnica (trama-ordito) e tecnologia (codici binari-stringhe di bit) e tra pelle di animale usata per realizzare i tappeti e gli arazzi di Fenara, si ripristina e si rappresenta una condizione originaria che la natura non è più in grado di creare. Nuove specie raffigurate su manufatti prodotti dagli artigiani indiani di Uttar Pradesh (laddove, per una sorta di strano destino, le tigri sono circa 1400 e gli uomini più numerosi), danno forma a una nuova tribù. Ibridi non classificabili in una categoria tassonomica, condizione quest’ultima che rafforza la consapevolezza dell’estinzione del felino e della conseguente impossibilità di nutrire l’algoritmo.



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Il nuovo vocabolario zoomorfo afferma il fallimento della supremazia umana e quello della tecnologia (sua stessa creatura); da un lato evidenziando l’incapacità di una convivenza con le altre specie (se non in pochissime occasioni o in alcune culture da cui sono escluse quelle più industrializzate e avanzate tecnologicamente), e dall’altra mostrando i limiti della tecnologia di originare dati virtuali in assenza di dati reali. Nei lavori fotografici in bianco e nero affiancati ai tappeti, le tigri appaiono nella notte immortalate dalle telecamere a circuito chiuso collocate nelle foreste o nei parchi. Lo spettro delle possibilità visive si amplia tra lo sguardo e la telecamera, cogliendo ciò che altrimenti non sarebbe possibile raggiungere, e mostrando momenti spesso privi di una narrazione cui dare un senso. Si tratta, infatti, di scene in cui il più delle volte non accade nulla di particolare, e che nella maggioranza dei casi si perderebbero tra la moltitudine delle sequenze. La presenza dei felini, sempre più rara nel mondo, è recuperata dallo sguardo multisituato dell’artista attraverso una giungla reticolare, per trasferirsi in una dimensione naturale accessibile a tutti.

L’uso di immagini prelevate dai dispositivi di sorveglianza mettono in luce l’ibridazione tipica dell’arte contemporanea e l’archivio globale infinito da cui poter attingere, in cui la “memoria” tecnologica viene salvata dall’oblio. Allo stesso tempo si evidenziano le debolezze di un sistema che se non adeguatamente protetto consente tale sottrazione, come sperimentato da diverso tempo dall’artista con alcuni suoi lavori (Autoritratto dalla telecamera di sorveglianza, Supervisione, 21th century bird watching). Le molteplici potenzialità dell’IoT- Internet of Things3 (la comunicazione intelligente tra oggetti e rete) – sono messe in discussione poiché apparecchiature prodotte per motivi utilitaristici possono essere alterate, manipolate e orientate al controllo dei soggetti stessi che le utilizzano. Il meccanismo che nutre la società postmoderna, alimentata dal desiderio di un distopico futuro prossimo in cui le tecno-scienze saranno sempre più pervasive, apre a un dibattito su questioni di privacy e legittimità che dovranno trovare non solo un confronto quanto più possibile aperto, ma anche un serio fondamento giuridico a tutela dei diritti di ciascuno. I diritti degli animali hanno necessariamente bisogno di maggiori tutele, risorse anche finanziare, e soprattutto di un cambiamento culturale per proteggerne habitat e sussistenza.

Irene Fenara, attraverso la tecnologia, con il suo complesso meccanismo di strutture, codici e limiti, restituisce all’uomo la visione di qualcosa che sta scomparendo (sebbene con forme differenti), avviando un singolare processo di ripopolamento della fauna. “Hey there, Tiger”consente a quella realtà svuotata o despazializzante, figlia della modernità teorizzata da più parti, di soffermarsi su un tema centrale per l’umanità: la convivenza tra specie, estrapolando immagini (vere o fantasiose) e riaffermando l’oggettualità di quei corpi estinti per ristabilire una condizione naturale.

Elena Solito


1. Nagaland – terra dei Naga, gruppi tribali di origine indo-mongolica che risiedono sulle alture al confine tra India e Myanmar (ex Birmania), l’area definita la Terra delle Sette Sorelle – sette Stati creati tra il 1947 e il 1987 per rispondere alle forti specificità etnico-culturali delle popolazioni locali.
2. D.Quammen, Alla ricerca del predatore alfa, Adelphi, 2020 – “per centinaia di migliaia di anni, gli uomini furono divorati, finché non si trasformarono essi stessi in animali divoranti”.
3. Kevin Ashton, direttore esecutivo del Centro di Auto-ID del MIT, conia il termine IoT- Internet of Things nel 1999 durante una presentazione per Procter&Gamble, si riferisce alla comunicazione intelligente tra oggetti e rete.


Irene Fenara

Hey there, Tiger!”

20 febbraio – 15 maggio 2021

UNA GALLERIA – Via S.Antonino 33 – Piacenza

www.unagalleria.com

Instagram: una_galleria


Caption

“Hey there, Tiger!” – Irene Fenara, immagine di copertina – Courtesy UNA e l’artista

Irene Fenara, Three Thousand Tigers, 2020 – Arazzo, lana e seta, 300×200 cm – Courtesy UNA e l’artista, ph. Andreas Manini

Irene Fenara, Three Thousand Tigers (dettaglio), 2020 – Arazzo, lana e seta, 300×200 cm – Courtesy UNA e l’artista, ph. Andreas Manini

Irene Fenara 1017 – Stampa a getto d’inchiostro su carta baritata, 36×55 cm – Courtesy UNA e l’artista, ph. Andreas Manini

Irene Fenara Three Thousand Tigers, 2021 – Arazzo, lana e seta, 100×72 cm – Courtesy UNA e l’artista, ph. Andreas Manini