Di sottrazione, assenza, necessità di vuoto. E ancora della separazione da oggetti e materia di ricordi per passare da una sfera individuale a una totalmente collettiva. Di questo abbiamo parlato con Giuseppe Palmisano in occasione della sua mostra Ogni Cosa è abbandonata, realizzata presso il box di Kunstschau a Lecce.
Essere, divenire, lasciare, ricominciare. Giuseppe Palmisano, iosonopipo, iononsonopipo, e di nuovo altro. Una stratigrafia archeologica dell’essere, scandita tra collettività e senso di vuoto.
La questione dell’archeologia mi fa pensare, in merito a questa mostra/accadimento, il fatto dell’abbandonare, del lasciare andare che è un esercizio che possiamo fare su noi stessi solamente quando lavoriamo su qualcosa che pensiamo di avere costruito. Per cui, a oggi, la parte destruens per me è la parte principale; ogni volta che capisco qualcosa la devo abbandonare, un lascito che, sicuramente, mi ha donato il teatro. Svegliarsi ogni giorno ed essere pronti a interpretare la stessa parte senza però ricordarsi cosa si è fatto il giorno prima è poi un po’ quello che penso dell’arte visiva, che è una cosa da cui mi sto allontanando sempre di più. Quello che ci interessa è la stratificazione delle sensazioni, la logica delle sensazioni diceva Deleuze. Credo che l’azione sia molto più autoriale in questo momento rispetto alla visione. Non possiamo appropriarci della visione, non possiamo dire questa cosa siamo noi ma possiamo dire che questa cosa l’abbiamo voluta noi. È per questo che anche nell’abbandono della mia identità artistica fotografica, l’azione autoriale è stata deciderne l’interruzione con un’asta su ebay. Tutta la produzione per me non è autoriale né può essere considerata mia, per quanto il nome iosonopipo fosse uno statement che avevo mutuato dalla mia vita precedente in teatro, che, a sua volta, ho abbandonato per altri motivi.
Quanto pesa l’identità?
L’identità pesa quando crediamo di avere dei programmi che nulla hanno a che fare con l’opera artistica. È sintesi con l’imprevisto, cura dell’attimo ed essere pronti ad abbandonare l’idea. Se il peso lo intendiamo con un’accezione negativa, penso che ormai l’identità è diluita da quello che mostriamo. Per me era arrivato un momento in cui la definzione degli altri era importante per quello che gli altri stessi definivano. Un filtro oneroso perché la tua identità è in realtà una proiezione di quello che il pubblico ragiona con te. L’attore e l’artista ragiona con il pubblico non per il pubblico, termine che non mi è mai piaciuto. In quella dimensione lì l’identità diventa una richiesta. Il pubblico sintetizza ciò che ha visto, filtra ciò che gli piace e poi fa una richiesta, e le richieste erano molto più pesanti di quella che era la mia volontà. Quello che vogliono vedere gli altri era iosonopipo. Il trend è arrivare a uno status perché il goal è guadagnare con quello che si va a fare, ma io credo che non esista un goal nel percorso, il goal è il percorso. Il social non è un circuito di ascolto, non è più la dimensione di happening dove vieni e ragioni, che è quello che è successo anche in questa occasione: definire ciò che accadrà con le persone che siederanno davanti a te. Ho scoperto l’abbandono attraverso gli oggetti che le persone mi hanno portato, le variabili, i sensi e le risposte dentro ognuno. Come faccio a considerare cosa sono in 100mila follower che mi seguono da tutto il mondo? Il peso è la responsabilità rispetto a quei 100 mila follower, non per rassicurarli ma per chiedere loro cosa sta succedendo in me. Non esiste in quello spazio ascolto e dialogo, come fa un artista ad affermare e basta? l’opera deve essere messa principalmente a repentaglio e lì non accade.
“Artista” è una parola in cui non ti identifichi. Come potremmo, allora, rappresentare ciò che fai dal principio?
La primissima riflessione sull’artista è sulla parola che, oggi, ha un suo rilievo dato che viviamo in una dimensione prettamente comunicativa. Oramai si crea questo scambio tra “artista” e “creativo” che mi fa brivido. Non è possibile essere artista oggi in quel senso, perché il creatore può essere quello di un “contenuto non contenente” inteso come file. Anche questo è un aspetto di quella riflessione sul non appesantire il mondo di file non necessari, di immagini. Una non visione, o meglio un lavoro di archivio, umano, proprio perché l’artista deve intercettare le forme, le sensazioni e i colori del quotidiano universo di persone, quindi più che creare deve indicare. Per me l’artista indica. Gli oggetti esistono già, bisogna indicare che una cosa esiste dove e quando nessuno la vede, perché non la può possedere.
Ogni cosa è abbandonata è il progetto che hai portato a Lecce, presso il box di Kunstschau. Una storia corale, attraverso oggetti che le persone ti offrono, ma non tuttiriescono a far parte del tessuto connettivo dell’opera.
Sono partito dall’idea di non accettare tutto per rimarcare la voglia di verità, non mi interessava un posto di oggetti. È interessante che qualcuno esca dalla propria abitazione e faccia un percorso, colori il calco e il negativo che c’è tra la persona e l’opera, che è stato sempre il mio pallino mentale. Da qui cosa rimane? Fisicamente, matericamente, qual è il percorso tra l’opera e la parte attiva? Allora quella distanza lì è quella che molto spesso è bello percepire. Mi ricordo il mio peregrinare verso Floating Pierce di Christo, andare in un posto, per me quell’andare era verso una verità. Per me se arrivi qui è perché stai cercando una tua verità in questo abbandono. Non avrei accettato chi fosse venuto qui solo per partecipare. “L’importante è partecipare” qui non vale. Poi mi sono interrogato circa l’assenza, lavoro spesso sul vuoto. Che cosa vuol dire il vuoto? Il vuoto è una potenza e doveva esistere anche in questa mostra, per cui non accettare è diventato, in seguito, un lasciare traccia del non abbandono perché ci sarà anche chi si sarà mosso da casa sua, ha percorso il negativo ma non è ancora pronto. E quel non essere pronto è indicato da una busta vuota. L’assenza invece, in questo caso è diversa ed è riferibile a tutte le persone che, saputo di questa possibilità di verità, non hanno voluto neanche affrontarla. Io dico sempre: facciamo le cose insieme, questa cosa avviene solo se voi volete che avvenga, perché io più di indicare non posso fare; il camminare è fondamentale. Andare fuori è sempre un andare dentro.
Emerge un’interessante sincronia tra quello che mi sembra essere un tuo principio di base, l’interscambio costante, e il collettivo artistico Kunstschau, che da tre anni porta l’arte contemporanea nel garage di un condominio.
Ne prendo atto come spunto di riflessione in questo momento. È interessantissimo che sia avvenuto mentre tutto chiude; e la mia riflessione sull’industria arriva ad affermare che tutto ciò che è industria può chiudere, la cultura no. Non mi sono mai chiesto cosa fosse il sistema fino a che io stesso ho dovuto dire sono artista o non lo sono. E se lo sei ti devi confrontare con un sistema, ma questo non tiene conto dei condomini, dei garage, dei bar, dei ristoranti. Io vorrei, e mi auguro, che si continui ad aprire garage, senza bisogno neanche di definirli, fare arte mentre si chiudono le cose proseguendo nel ridefinire i confini mentali della cultura. L’arte può insegnare l’impossibilità dell’impossibilità. È la prima volta che qualcuno mi chiama dandomi un input di richiesta, di solito mi sono sempre svegliato con una necessità, ma tutto si può fare se si è pronti all’imprevisto. Invece, quando si pensa a un luogo, a un modo, a un programma e un business plan no, perché l’arte non ha nientea che fare con il marketing. Arte è alzare una saracinesca e riempirla di vita. Per questo non esiste l’arte ai tempi del covid, un confronto con l’immateriale c’è sempre, è la spinta iniziale.
“Noi proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata in estensione, e la successione prende per noi la forma di una linea continua, di una catena, le cui parti si toccano senza compenetrarsi” (Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza).
Questo mi fa pensare che la filosofia, per quanto da me non studiata, sia sempre presentissima. La cosa bellissima dei lavori veri è ritrovarsi negli altri e arrivare alle stesse frequenze, in momenti e in spazi e tempi completamente diversi. Circa il concetto di tempo mi viene in mente una piccola bio inventata su di me che scrissero per una delle prime mostre fotografiche a Monopoli, quando avevo iniziato a fare le prime foto, perché avevo preso una macchina che diceva più o meno: «Se mi guardo ho impresso nel mio specchio la mia foto ingiallita, è come se fossi già vissuto e fossi ritornato dal tempo per raccogliere le storie di chi vive oggi, rincuorarli che si vive ancora come si viveva ieri. Gli stessi amori, gli stessi dolori, gli stessi pensieri… all’infinito.». Il tempo va allargato, non allungato. Se considerassimo un oggetto come uno spazio temporale da allungare non lo vivremmo mai, ma allargandolo capiremmo che potenza ha all’interno di una giornata e potremmo decidere di poterlo anche lasciare. Allungandolo si crea una proiezione di una fine, allargandolo ogni giornata è lunga un’eternità.
A cura di Lara Gigante
Instagram: iononsonopipo
Instagram: ks_kunstschau
Caption
Ogni cosa è abbandonata – Courtesy l’artista, ph. Stefano Cacciatore
Veduta esterna box Kunstaschau, Ogni cosa è abbandonata – Courtesy l’artista, ph. Stefano Cacciatore
Dettaglio interno box Kumstschau, Ogni cosa è abbandonata – Courtesy l’artista, ph. Stefano Cacciatore
Ogni cosa è abbandonata – Courtesy l’artista, ph. Stefano Cacciatore