Intervista a Giulio Saverio Rossi

Hai studiato pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia e all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino per poi specializzarti in Grafica d’arte al Bisonte di Firenze. Le tue esperienze formative come hanno alimentato la tua ricerca artistica?

Ognuna di queste esperienze mi ha influenzato molto anche se il più delle volte per via di contrasto: a Venezia ho trovato una forte tradizione pittorica ma un uso del medium troppo acritico, così ho cercato una cattedra con un taglio più concettuale, in cui di fatto, pur essendo una cattedra di pittura, non era consentito dipingere. A Firenze, nell’incisione, ho intravisto la possibilità di pensare da un punto di vista concettuale le stesse tecniche tradizionali, ma il mondo della grafica era, ed è, molto scollato dal dibattito contemporaneo, così quando sono arrivato all’Accademia di Torino ho resettato il mio approccio pittorico nel tentativo di unificare le problematiche concettuali a una ricerca formale, basata sugli aspetti metodologici della tecnica. Insomma; ho mischiato un po’ le carte.

Sei un giovane artista che si relaziona in modo critico ai mezzi tradizionali della pittura; che cosa rappresenta per te il linguaggio pittorico e che mezzo di visione offre la tela?

Premetto subito una cosa: io non amo la pittura. L’amore richiede una devozione incondizionata e acritica. Per me è necessario e vitale, dietro a ogni lavoro, stabilire il motivo specifico in base a cui usare un medium tradizionale, e capire come il medium possa essere implicato nella specifica narrazione che sto intessendo. Si tratta di una decostruzione, tesa a svelarne di volta in volta un sotto testo, una latenza.

Mi interessa la pittura come luogo paradigmatico del pensiero occidentale, punto di vista privilegiato che, se da un lato ha partecipato alla costruzione di un’egemonia del visibile, oggi vive in una condizione residuale, in cui a essere caduto non è solo e semplicemente il suo ruolo nella gerarchia fra le arti, ma la concezione culturale su cui la pittura poteva appoggiarsi. In questo vuoto di fondamento si trova lo spazio per ripensare la pittura a partire da un nuovo paradigma della visibilità basato non più sulla simulazione del reale, ma neppure sulla pura gestualità espressiva, bensì sulla proposta di un’ecologia dello sguardo.

In questo pensiero mi è cara l’idea della pittura come strumento in grado di smantellare l’immagine digitale a favore di immagini a bassa densità, in cui la messa a fuoco richieda dei tempi dilatati di fruizione e le cromie non siano nette e distaccate, cioè timbriche, quanto piuttosto tonali. È nel rapporto fra digitale e analogico che la pittura può fondare la sua différance (nell’uso che ne fa Deridda), istituire cioè sia la sua alterità che la non coincidenza: la spaziatura, il differire.

Nelle tue opere si presenta uno sguardo alla pittura del passato, ad esempio, le opere esposte in mostra a Bologna portano a proiettarsi verso le atmosfere suggestive e silenziose di C. David Friedrich ma anche a un’analisi del pittore Rembrandt. Che visione hai dell’arte passata?

Una tela non è mai propriamente vuota, è piuttosto già abitata da una serie di latenze, che sono tutte le immagini che ci hanno formato e che appartengono alla storia dell’arte. Sulla superficie della tela, esattamente come in una fantasmagoria, può allora riemergere un’immagine che è già emersa altre volte, in altri tempi e in altri luoghi. Nella mostra Ogni cosa rappresa da CAR DRDE a Bologna, ho deciso di realizzare una “copia” di Das Eismeer (1823-24), il celebre quadro di Friedrich in cui il pittore tedesco ha rappresentato una vasta distesa di un mare ghiacciato, al cui interno si scorge un unico elemento antropico: una nave rovesciata su di un fianco e bloccata dai ghiacci. Nessuno sa in quale tempo siamo e nessuno sa da quanto quella nave sia lì. Nella mia rilettura Sub-versione (2018) l’immagine riappare nel contesto del contemporaneo ma dopo esser stata rovesciata: ho invertito gli strati di cui l’immagine è composta. Il dipinto è realizzato sulla tela grezza e lo strato di imprimitura a base di gesso è dato in superficie, andando ad ovattare l’immagine dipinta. L’opera di Friedrich racconta di un ambiente glaciale, in cui l’acqua, elemento vitale, si cristallizza mutando forma e diventando qualcosa di ostile. Il gesso in polvere, usato nel lavoro, fa esattamente il percorso inverso, deriva dal riscaldamento di cristalli di gesso, creando così una dialettica senza soluzione fra contenuto dell’immagine e i materiali di cui questa è composta.

In modo analogo Rembrandt viene chiamato in causa dal testo di sala scritto da Gabriele Tosi che, a ragione, ha riletto l’intero progetto come se si trattasse del teatro anatomico dipinto in Lezione di anatomia del dottor Tulp (1632) dal pittore olandese. Come i dottori nel quadro guardano il braccio dissezionato dell’omicida “Het Kindt” anche in Ogni cosa rappresa si instaura una logica del simile e del dissimile. Se davanti a Rembrandt ci si può domandare se i dottori stiano guardando un corpo appartenente alla loro stessa specie umana o un “qualcosa” che, cessata la sua funzione, si rivela per una forma a sé stante, allo stesso modo la mostra sviluppa una pittura che guarda se stessa, cercando di mettere in luce sia i suoi meccanismi nascosti (l’anatomia del braccio dell’assassino) sia il camuffamento dei suoi stessi materiali come il gesso (i dottori vestiti nella loro divisa).



FU 2_Giulio Saverio Rossi_Gipsoteca #1 e #2_CAR DRDE Bologna
FU 1 _Giulio Saverio Rossi_Ogni cosa rappresa_Installation view 1_CAR DRDE Bologna
FU 3_Giulio Saverio Rossi_Ogni cosa rappresa # e #2 laterale_CAR DRDE Bologna
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Ogni cosa rappresa è la tua prima personale in una galleria privata ed è un progetto nel quale si nota uno sviluppo del tuo lavoro. Ci racconti questa evoluzione?

Ogni cosa rappresa racconta della cristallizzazione delle cose, del loro rapprendersi. È così che guardo a questa mostra, come un buon esito del condensamento di diverse modalità su cui ho lavorato negli ultimi anni. Al centro del progetto si pone la ricerca di una rappresentazione del reale che, in un percorso per nulla circolare, arriva a una dissoluzione dell’oggetto. L’intera mostra trova il suo perno nell’unica opera “figurativa” (Gipsoteca #1, 2018), un dipinto che rappresenta un blocco di selenite estratto nei giacimenti di gesso romagnoli. L’elemento reale è però dipinto come se fosse un oggetto finto e simulato, in quanto fluttuante in uno spazio indefinito. Da questo quadro si sviluppano tutti gli altri lavori in mostra, ognuno dei quali presenta o nasconde l’elemento del gesso che all’interno della mostra acquista una duplice valenza: da un lato la relazione col territorio, sia naturale (i giacimenti di gesso) che antropico (le vecchie mura della città erano di selenite), e dall’altro la relazione con la storia dell’arte visiva, essendo il gesso l’elemento usato storicamente nell’imprimitura delle tele.

Ho lavorato sin dall’inizio concependo i lavori per lo spazio di CAR DRDE e ho suddiviso i cinque lavori in mostra in due differenti narrazioni. Sulla linea frontale rispetto all’entrata si collocano Gipsoteca #1 e Gipsoteca #2, le uniche due opere realizzate a olio su tela, che rappresentano, rispettivamente, un pezzo di selenite (gesso minerale) e un dettaglio del gesso in polvere. I due pezzi sono separati dal corridoio della galleria che si fa spazio simbolico della mutazione da selenite a polvere di gesso.

La seconda narrazione si sviluppa sulle pareti laterali dello spazio espositivo a partire dal quadro già citato di Friedrich, Sub-versione, in cui l’inversione degli strati pittorici porta in superficie l’elemento nascosto del gesso, e, sulla parete opposta, si collocano due grandi lavori che danno il titolo alla mostra. Ogni cosa rappresa #1 e Ogni cosa rappresa #2 sono due disegni a punta d’argento su base di bianco d’ossa e gesso di Bologna su tela, sulla cui superficie ho disegnato un campionamento visivo del pezzo di selenite iniziale, costruendo a mia volta un gruppo di cristalli immaginari.

In conclusione, guardo al progetto come a un continuo esercizio di trascrizione e traslazione di una forma costretta ora a espandersi e ora a contrarsi. Nello spazio fisico della galleria così come nel tempo percettivo della fruizione individuale.

a cura di Mara Vittoria Tagliati


Giulio Saverio Rossi

OGNI COSA RAPPRESA

17 novembre 2018 – 12 gennaio 2019

Galleria CAR DRDE – Via Azzo Gardino, 14/a – Bologna

www.cardrde.com


Caption

Giulio Saverio Rossi, Ogni cosa rappresa – Installation view, CAR DRDE Bologna, 2018 – Courtesy CAR DRDE Bologna